jacopo-inghirami
Incisione commentata di Jacopo Inghirami (1563-1623) di Giulio (Giuliano) Traballesi (1731-1812). Incisione a sua volta basata su un precedente ritratto della Galleria Imperiale di Firenze. Il testo in italiano recita: "Iacopo Inghirami Patrizio Volterrano Marchese E Ammiraglio Delle Galere Del Granduca Di Toscana nato del MDLXIII morto il di 3 Gen'o MDCXXIII Al merito sing've dell' Ill'mo'e Rmo Mons're Iacopo Gaetano Inghirami Patrizio Volterrano, Vescovo d'Arezzo, e Conte di Cesa ec. ec. Agnato del suc'o Preso dal Ritratto dell' Imperial Galleria di Fierenze."

Indice Anagrafico dei corsari operanti nel Mediterraneo:

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IACOPO INGHIRAMI (Jacopo Inghirami) Di Volterra. Cavaliere di Santo Stefano. Marchese di Montegiovi e priore del Santo Sepolcro.

1565 (luglio)-1624 (gennaio)

 Anno, meseStato, in proprioAvversarioAzioni intraprese ed altri fatti salienti
1581/1591Giugno 1581. Entra a far parte dell’ordine dei cavalieri di Santo Stefano. Inizia il suo tirocinio triennale di istruzione tecnica e pratica a Pisa presso il Palazzo della Carovana e dei Cavalieri, attualmente sede della Scuola Normale di Pisa. Dal 1588 naviga nella squadra delle galee dell’ordine agli ordini di Pier Luigi dei Rossi. Nel 1590 si imbarca nella “San Giovanni” agli ordini di Francesco da Montauto.  Ha il comando di una compagnia di fanti. E’ presente in tutte le crociere della squadra stefanesca sia nel Tirreno che lungo le coste maghrebine.
1593FranciaUgonottiCombatte nelle guerre civili di Francia al servizio della lega antiprotestante. Milita agli ordini del duca di Mercoeur in Alvernia. Nel settembre 1594 è segnalato in Bretagna.
1596/1599
Agosto ottobreToscana FranciaHa il comando della galea “Livornina”. In questo periodo prende parte ad alcune operazioni di scorta a convogli toscani che trasportano vettovaglie, messaggi ed armati impegnati nella difesa del castello d’If, fortezza che sorge di fronte a Marsiglia (Marseille), occupata dalle truppe del granduca Ferdinando dei Medici per evitare che cada in potere dei protestanti. L’intesa è che il castello sarebbe stato riconsegnato alla Francia dopo l’abiura del re Enrico IV e la conseguente sua ascesa al trono. A metà ottobre 1596 è segnalato in navigazione per raggiungere il castello d’If. A causa del maltempo deve sostare all’isola Gallinara nei pressi di Albenga. Riprende il mare per le isole Hyères; alcune ondate investono la sua galea in modo tale da procurare la rottura di una vela e di alcuni remi. Entra nel porto di Tolone (Toulon) per riparare le avarie. A Marsiglia. Migliorano le condizioni atmosferiche e può raggiungere la sua meta . Nel viaggio di ritorno intercetta un brigantino barbaresco cui dà inutilmente la caccia. Solo a fine mese, frenato da nuove tempeste dapprima a Monaco e poi a La Spezia, è in grado di raggiungere Livorno. Nel novembre 1597 si ammala gravemente a Livorno.  Nell’aprile 1599 ottiene il comando della galea padrona della squadra toscana. Salpa subito da Livorno. La squadra stefanesca a causa del maltempo è costretta a rifugiarsi a Portoferraio dove le bastardelle “Pisana” e “Livornina” devono sottostare ad alcuni lavori di manutenzione. Riprende il mare; si dirige con il resto della squadra prima a Talamone, indi a Civitavecchia per la presenza lungo il litorale laziale di alcune galeotte barbaresche. Dà loro inutilmente la caccia. A maggio segue Marcantonio Calefati nella sua impresa volta a colpire la fortezza di Chio (Khios) nelle Sporadi meridionali. A giugno litiga con il capitano della squadra stefanesca tanto che pensa di abbandonare il servizio attivo. E’ ricomposta la divisione tra i due uomini di mare cosicché  a metà mese affianca ancora il Calefati nella sua azione ai danni Dijdjelli e Al Khol (Giggeri e Colle). A luglio prende parte all’attacco ai danni di un villaggio nei pressi di Sette Capi. Sulla padrona è caricato un pezzo di artiglieria prelevato a terra. I toscani sono tuttavia costretti a reimbarcarsi a causa dell’opposizione riscontrata. In questa fase la sua galea è la più esposta al fuoco nemico; lo stesso Inghirami è ferito al petto da un colpo di archibugio sotto la spalla destra.
1600/1601
…………………..ToscanaNell’aprile 1600, sempre al comando della padrona, affianca una volta di più Marcantonio Calefati in una missione di pattugliamento dell’alto Tirreno e delle acque siciliane. Ammalatosi, deve lasciare il comando della galea.  Ripresosi, ad ottobre, al comando della capitana, accompagna a Marsiglia Maria dei Medici sposatasi per procura con il re di Francia Enrico IV.  Nel gennaio 1601, alla testa della padrona, segue sempre il Calefati in un’azione di pattugliamento dell’alto Tirrreno. Lungo il litorale corso sono avvistati 4 brigantini barbareschi: 3 equipaggi si buttano sulla costa, il quarto prosegue la sua navigazione verso sud. Riceve l’ordine di occuparsi delle navi incagliatesi. I suoi uomini scendono a terra alla ricerca dei fuggitivi: sono catturati solo 25 corsari. Nell’estate dello stesso anno prende parte all’infelice spedizione voluta dal re di Spagna Filippo III ai danni di Algeri. Al ritorno dalla Spagna la squadra sosta a Barcellona per trasportare nelle galee alcune merci destinate alla Toscana. Durante l’attraversamento del golfo del Leone il sovraccarico mette talmente in difficoltà la padrona e la “Siena” da costringere le altre galee a fermarsi per attenderle. Ai primi di novembre a seguito dell’uccisione a Livorno di Marcantonio Calefati il granduca di Toscana Ferdinando dei Medici delibera di sottoporre ad un esperimento pratico l’abilità dei suoi migliori capitani; soprassiede all’elezione del nuovo ammiraglio per affidare il comando della squadra di galee, a turno, ai tre prescelti, vale a dire Iacopo Inghirami, Cosimo Angelini di Perugia e Leonardo Pitti di Firenze.  L’Inghirami è il primo chiamato ad esercitare tale funzione.
1602        Febbraio maggioToscanaImpero ottomanoA metà febbraio salpa da Livorno a bordo della capitana per recarsi in Spagna a prelevarvi il duca di Bracciano Virginio Orsini. Al suo rientro in Toscana riceve disposizioni per compiere una lunga crociera. Riceve ufficialmente il comando della capitana con autorità di ammiraglio. A fine marzo esce da Livorno con 4 galee sottili e 2 bastarde (galee rinforzate nel numero dei vogatori); fa rotta verso l’isola d’Elba. Ad aprile, a causa del peggioramento delle condizioni atmosferiche deve rifugiarsi a Civitavecchia. Con il bel tempo raggiunge Nisida per scaricarvi una partita di zucchero e cuoio. Si dirige verso l’Egeo. A metà maggio la squadra è in vista di Capo Colonna  (Sounion). E’ scorta una galeotta di 21 banchi che sta risalendo il canale che separa Rodi dal promontorio e punta verso nord. Iacopo Inghirami divide la squadra in due gruppi: capitana, “Firenze”, “Livornina” e “Siena” percorrono una rotta parallela a quella del legno avversario; padrona e “Pisana” cercano, invece, di entrare nel canale dal suo accesso meridionale  al fine di togliere  alla galeotta (comandata dal celebre Hassan Mariolo) l’unica via di fuga rimastale. Il vento aumenta di intensità e tutte le imbarcazioni sono costrette a ripararsi a ridosso della costa. Il bey di Nauplia, resosi conto dell’impossibilità di fuggire per mare, fa scendere a terra tutti i rematori(90 uomini, tra cui 25 cristiani) e l’equipaggio. Iacopo Inghirami si impossessa della galeotta; fa trasportare nelle sue navi il cannone di corsia e l’intero carico (frutto di recenti razzie) consistente in 26 quintali di formaggio, 17 quintali di gallette ed in 270 litri d’olio. La galeotta viene data alle fiamme nei pressi di Atene dopo essere stata privata di gran parte delle sue attrezzature. Alcuni giorni dopo all’isola di Negroponte (Ewoia) ferma un piccolo natante greco: nell’ispezione del battello sono scovati cinque passeggeri musulmani che vengono imprigionati: anche una partita di formaggio cambia proprietario. All’isola di Tino (Tinos) è informato che la flotta ottomana si sta preparando a salpare da Costantinopoli il mese successivo. Approfitta della lontananza degli avversari per attaccare un caramussali proveniente da Alessandria d’Egitto (Al Iskandariyah) carico di sale, lenticchie, lino e  cuoio. Il veliero si butta verso la costa per sfuggire alla cattura. L’Inghirami fa sbarcare dalla capitana un contingente di fanti che insegue i fuggitivi nel retroterra. Sono ridotti in schiavitù 24 uomini. Il caramussali è spedito in occidente dopo avervi imbarcato una trentina di marinai, cinque soldati ed un bombardiere. Nei pressi conquista  un altro caramussali carico di riso, lenticchie e lino. L’equipaggio fugge a terra a bordo di una scialuppa. Anche tale veliero viene spedito in occidente, a Livorno come il precedente. Informato che sempre da Alessandria d’Egitto sono partiti altri 11 velieri, 2 galee di 25 banchi ed una galeotta (18 banchi) si pone in agguato. Data la grande distanza che separa le due formazioni decide di rinviare il combattimento al giorno seguente. Fa abbassare gli alberi di maestra delle proprie galee; precede nottetempo gli avversari.
GiugnoSi scontra con le navi nemiche presso Samo (Samos): attacca la capitana e la padrona di Alessandria.  Quest’ultima, investita con il rostro viene catturata dopo un ostinato combattimento. Insegue le altre  navi che si gettano sulla costa ove sbarcano gli equipaggi. Sulle 2 galeotte,  la capitana e la padrona di Stanchio, sono trovate notevoli quantità di pezzi d’argento lavorato, gioielli e molta polvere da sparo; la capitana di Stanchio, in cattive condizioni, è data alle fiamme. Nel proseguio della sua campagna si impossessa di altri 24 piccoli vascelli. I bastimenti catturati vengono rimorchiati a Livorno. Il bottino è valutato in 111700 scudi, di cui 58000 derivanti dalla vendita di 423/430 schiavi (i prigionieri delle 2 galee di Alessandria), 30000 dalla vendita degli ottomani a bordo delle 2 galeotte) ed il resto dai saccheggi effettuati a terra. Iacopo Inghirami è accolto trionfalmente al suo ritorno a Livorno.   Sono  liberati dalla catena 245 cristiani. Un dipinto di Iacopo Chimenti (Iacopo da Empoli) nel soffitto della chiesa dei Cavalieri a Pisa ricorderà questo celebre scontro navale.
AgostoHa l’incarico con Cosimo Angelini e Leonardo Pitti di controllare le acque intorno alle isole antistanti la Toscana, nonché dei litorali laziali, campani, calabresi e siciliani. Le galee sono pure cariche di merci da trasportare a Napoli ed a Messina. Giunto in tale città trova la popolazione sgomenta perché voce comune è che Sinan Pascià (Scipione Cicala) si stia preparando con una grossa flotta ad assalire la Sicilia. Viene trattenuto nel porto dal viceré di Sicilia, il duca di Feria fino all’arrivo della flotta spagnola condotta dal principe Emanuele Filiberto di Savoia. Attende venti giorni; alla loro scadenza  rientra a Livorno.
Settembre novembreToscanaCorsari barbareschiLa squadra riprende il mare agli ordini di Leonardo Pitti che si imbarca nella capitana mentre Cosimo Angelini sale a bordo della “Firenze” e Iacopo Inghirami sulla padrona. Verso Nisida, Napoli; la flottiglia incrocia per più giorni nelle acque tra Ischia, Procida ed Ustica. E’ catturato un brigantino di 9 banchi con a bordo 27 corsari. E’ rinviato a Messina dove si viene a conoscenza che che Sinan Pascià ha già lasciato coste siciliane. E’ compiuto un nuovo viaggio di corsa lungo la costa africana; a causa del peggioramento delle condizioni atmosferiche i cavalieri di Santo Stefano non sono  in grado di impossessarsi di alcuna preda. A dicembre l’Inghirami si reca a Genova con la sola padrona per trasportare in Toscana una partita d’argento.
1603                 Aprile giugnoIl granduca stabilisce che i tre capitani Inghirami, Angelini e Pitti abbiano il comando della squadra non più per una crociera alla volta bensì per un intero anno ciascuno. L’Inghirami rifiuta di avallare tale decisione. Camillo Guidi è chiamato a corte dalla granduchessa Cristina di Lorena per convincerlo ad accettare le nuove condizioni imposte da Ferdinando dei Medici. L’incontro tra Guidi ed Inghirami avviene a metà aprile a bordo della capitana. Gli sono concesse alcune commende dell’ordine (comportanti una rendita annua di 400 scudi) ed un vitalizio di 150 scudi. Agli altri due capitani vanno, invece, due commende per una rendita, a ciascuno, di 200 scudi l’anno. Fa disarmare la vecchia “Livornina” ed approntare una nuova galea con l’identico nome. Il ruolo di galea padrona passa alla  “Firenze”. Terminati i preparativi a fine mese lascia Livorno. Inghirami sulla capitana, Angelini sulla padrona, Scipione Cortesi sulla “Livornina”, Ottavio da Montauto sulla “Pisana” e Sebastiano Tanugi sulla “Siena”. Leonardo Pitti rimane nel porto per attendere alla costruzione di una nuova diga. Durante il viaggio verso la Sicilia la “Livornina” presenta seri problemi di galleggiamento per cui è scaricata in mare parte delle merci che avrebbero dovute essere consegnate a Messina. Ogni anno, infatti, in tale località sono sempre trasportate e vendute partite di particolari tessuti (le cosiddette pannine) per essere sostituite nel ritorno dall’acquisto di altre merci, in genere  sete, da condurre in Toscana. A Messina la “Livornina” rimane nel porto con un equipaggio minimo. Il resto dei marinai, dei soldati e dei vogatori è distribuito nelle altre 4 galee. A metà maggio è in navigazione a Capo Matapan (Akra Tainaron). E’ avvistato un grosso caramussali armato con 19 pezzi di artiglieria e con un equipaggio di 90 uomini, partito da Modone (Methoni) con un carico d’olio da consegnare a Costantinopoli. Fa bombardare dalla squadra per quasi due ore il veliero. I turchi si arrendono dopo avere subito la perdita di 50 uomini; i superstiti, in gran parte feriti, sono fatti prigionieri. Il caramussali, che nello scontro non ha subito gravi danni, viene fornito di un equipaggio di toscani per essere spedito a Messina. Proseguendo nella crociera la formazione si imbatte in altri 2 caramussali che sono, entrambi, attaccati nonostante le cattive condizioni del mare. Un veliero, 60 turchi a bordo e 28 greci, viene ripetutamente colpito dai pezzi di artiglieria della capitana e della “Siena”. La nave è talmente malridotta al termine dello scontro che viene affondata. 26 sono i turchi uccisi, i restanti sono feriti, parecchi dei quali in modo grave. Capitana e “Siena” denunciano quindici feriti. Nel frattempo anche la padrona di Cosimo Angelini e la “Pisana” costringono alla resa l’altro legno: 23 uomini uccisi e diciassette catturati. Sono viceversa più sensibili le perdite subite da tali galee (nove uccisi e 40 feriti). Il fatto induce l’Inghirami a porre fine alla spedizione e rientrare a Messina ove può recuperare la “Livornina” ed il caramussali speditovi in precedenza. A giugno dà inizio ad una nuova crociera nella quale partecipano 5 galee. Fa rotta dapprima sull’Elba, tocca Cagliari per dirigersi, infine, verso la costa maghrebina. Controlla le acque finitime l’isola di Zembrah.
LuglioAi primi del mese nei pressi dell’isola di La Galite le sue  galee si impadroniscono di un londro che trasporta un carico di sale. Dodici sono gli schiavi; è liberato un cristiano; la nave è abbandonata in mare. Giunge a Trapani, pattuglia le coste settentrionali della Sicilia, rientra a Messina dove è raggiunto da Leonardo Pitti con 2 galee caricate di panni. Gli sono notificate nuove istruzioni dal granduca per un’incursione in Levante. Mentre è fermo in tale porto per seguire i lavori di calafatura delle carene di alcune sue galee, giunge notizia che 2 galeotte barbaresche stanno dando la caccia ad un mercantile nelle vicinanze di Milazzo. Fa salpare la “Livornina” (rimessa a posto) e la appena arrivata “Santa Maria”. Con gli stefaniani lasciano Messina anche 3 galee genovesi. Queste ultime rientrano presto nel porto mentre le 2 navi dell’Inghirami proseguiranno la loro vana ricerca fino all’isola di Vulcano.
Agosto settembreTrasporta da Livorno a Napoli nella sua capitana il duca di Mantova Vincenzo Gonzaga. A metà mese fa rotta verso Levante alla testa di 5 galee. La squadra giunge nei pressi di Rodi. Nessuna preda cade in potere dei stefaneschi che anzi subiscono la perdita di alcuni fanti in un tentativo effettuato a terra allo scopo di rifornirsi di acqua potabile.
OttobreRientra a Livorno. Negli stessi giorni muore per cause naturali Leonardo Pitti. Lascia nuovamente il porto labronico per pattugliare, sempre alla testa di 5 galee, le acque del Tirreno. Dopo avere controllato le coste dell’Elba, di Pianosa e di Montecristo punta verso la Corsica dove sono state avvistate 6 unità barbaresche. Ormeggia a Bonifacio; ed attraversa le Bocche omonime. A metà mese sono  avvistate in questo tratto di mare  le navi avversarie (la capitana e la padrona di Algeri di 25 e 26 banchi rispettivamente) condotte da Amurat Rais e dal fratello di quest’ultimo, nonché  4 galee di Tunisi di 25, 24, 23 e 21 banchi. I stefaneschi aprono il fuoco con i cannoni di corsia;  i barbareschi cercano di guadagnare il largo. Iacopo Inghirami nota che una galea avversaria è rimasta distaccata dal resto del convoglio avversario. Ordina a Ottavio da Montauto di attaccarla con la “Pisana”. Incita pure la padrona di Cosimo Angelini a sostenere l’azione della “Pisana” mentre egli prosegue nell’inseguimento delle altre 5 unità barbaresche datesi alla fuga. Ottavio da Montauto cerca in due occasioni di abbordare la galea corsara; ogni suo attacco viene respinto. Nel frattempo i barbareschi passano al contrattacco. L’arrivo della capitana stefanesca in soccorso della “Pisana” impedisce agli avversari di prendere il sopravvento. L’Inghirami riesce a speronare di poppa l’unità corsara, la capitana di Tunisi comandata da Capri Mustafa. Ottavio da Montauto ora è in grado di avere la meglio sull’ imbarcazione nemica. Le altre 5 unità barbaresche si danno definitivamente alla  fuga. Sono catturati 119 uomini (dei quali una cinquantina sono feriti) e liberati dal remo 100 cristiani.  Sensibili sono pure le perdite subite dalla capitana e dalla “Pisana” con 87 feriti. Nel combattimento rimane ferito lo stesso Inghirami colpito da un frammento di metallo allo zigomo destro e da un proiettile d’archibugio alla coscia destra sopra il ginocchio. Anche Ottavio da Montauto riporta una ferita ad un piede da un colpo di archibugio. Entrambi saranno curati a Pisa nel convento dell’ordine.
1604
Aprile ottobreTrascorre il periodo invernale a Volterra. Ora la squadra stefanesca è comandata da Cosimo Angelini. Affianca i corsari inglesi Richard Gifford e William Pyers. Giunge con la sua flottiglia davanti al porto di Algeri;  il Gifford vi penetra con il suo bertone. Il corsaro inglese si finge un pacifico mercante di sale, ormeggia nel molo interno, studia la situazione e si avvede che se riesce a tagliare un piccolo ponte che unisce il molo alla terraferma può facilmente impedire agli algerini di soccorrere la squadra di navi messa in disarmo, peraltro male sorvegliata. Richard Gifford si mette d’accordo con altri due capitani francesi,l Brochet e Siguelen che in quel momento si trovano ad Algeri per motivi commerciali. Li induce ad aiutarlo nel suo tentativo di dare fuoco alla squadra barbaresca  ancorata nel porto. All’ora stabilita un gruppo di marinai, condotto dal Siguelen, punta verso terra, approfitta della negligenza del servizio di sorveglianza e rompe il pontile che comunica con la città. Gli altri due capitani, con più lance piene di armati, vogano verso la darsena ed appiccano il fuoco alle navi più importanti. Sono interamente distrutte dal fuoco 4 galee e 3 galeotte, tra cui la capitana di Amurat Rais (26 banchi), una galeotta di Soliman Rais (21 banchi), una di Ramand Rais (20 banchi) ed una di Alì Rais (19 banchi). Al ritorno a Livorno segue l’usuale pattugliamento dell’alto Tirreno; è così segnalata la presenza dei cavalieri a Porto Santo Stefano, a Port’Ercole e presso il Monte Argentario. La formazione fa rotta su Messina. A metà giugno, nel viaggio di ritorno in Toscana, nei pressi di Monte Circeo sono avvistati 2 brigantini barbareschi. Entrambi i 2 legni corsari sono raggiunti ed abbordati dalla capitana di Cosimo Angelini e dalla padrona dell’Inghirami. Segue il rientro a Livorno a fine mese per la manutenzione degli scafi. A luglio alla squadra stefaniana, sempre comandata dall’Angelini, è dato l’incarico dal granduca di Toscana di fare recapitare al viceré di Sardegna alcuni messaggi. Subito dopo la formazione (ora di 6 galee) ritorna a controllare il Tirreno settentrionale. Nel tratto di mare intercorrente tra la Toscana, la Sardegna e la Corsica sono intercettati 2 brigantini di 15 banchi ciascuno. I barbareschi fuggono a terra all’isola di Maddalena. Cosimo Angelini spinge a terra al loro inseguimento alcuni fanti. Dei corsari molti sono subito catturati dai toscani, altri lo saranno dai sardi nei giorni seguenti: tutti saranno ceduti agli stefaneschi dietro il pagamento di una certa somma. La crociera prosegue per Civitavecchia; la squadra ritorna nuovamente nelle acque della Sardegna e della Corsica. Poco lontano dall’isola di Lavezzi sono scoperte 2 galeotte barbaresche che viaggiano di conserva. I corsari per sfuggire alla cattura prendono due direzioni diverse. Anche Cosimo Angeliini divide la sua squadra in due gruppi: capitana, “Pisana” e “Santa Maria” si mettono alla caccia di una galeotta, mentre l’altra è inseguita dalla padrona dell’ Inghirami, dalla “Firenze” e dalla “Siena”. Durante la notte i 2 legni corsari riescono a far perdere le loro tracce. A Porto Vecchio i cavalieri di Santo Stefano sono informati del prossimo passaggio alle Bocche di Bonifacio di Amurat Rais con 5 unità. Dopo un giorno di navigazione è avvistata, nel tratto di mare che separa la Sardegna dalla Corsica, la presenza di una galeotta di 19 banchi comandata da Cuprat d’Amet separatasi dal resto della squadra corsara a causa di una tempesta. Cosimo Angelini abborda la nave avversaria: resta ucciso da un colpo di archibugio alla testa mentre dalla capitana sta dando alcune disposizioni. L’Inghirami assume il comando ed in breve tempo costringe Cuprat d’Amet alla resa. Sono fatti prigionieri 94 uomini e liberati dal remo 180 vogatori cristiani. Viene immediatamente nominato viceammiraglio dell’ordine. Riprende il mare a metà agosto con 6 galee: è prima a Messina da dove trasporta alcune merci in Toscana. Controllate diverse isole del Tirreno rientra a Livorno. Ha l’incarico di muoversi con 5 galee per intercettare Amurat Rais diretto ad Algeri. Prima di partire passa in rassegna le truppe caricate a bordo. Rimprovera il capitano di fanteria Girolamo Pascucci di Camerino perché costui, durante un assalto, non ha assolto i suoi compiti secondo gli ordini ricevuti. Dalle parole si passa agli insulti, dagli insulti alla sfida a duello in cui il Pascucci rimane ucciso. Per tale fatto non gli è mosso dal granduca alcun addebito. Ai primi di settembre è segnalato in navigazione verso l’Africa settentrionale. Agli inizi di  ottobre, nei pressi dell’isola di Zembrah, cattura un bertone inglese, dotato di 36 pezzi di artiglieria, che agisce d’intesa con i corsari algerini: è liberata una nave veneziana che, carica di malvasia, è stata in precedenza catturata dai barbareschi. In tale occasione nelle sue mani pervengono otto schiavi e 367/387 tra inglesi ed uomini di altre nazionalità che sono tutti avviati al remo. Lo stesso giorno si impossessa anche di un piccolo natante con sette musulmani; giorni dopo pervengono in suo potere vicino ad Ustica anche 2 brigantini barbareschi (37 prigionieri). A Livorno.
1605Agli inizi dell’anno con le galee ed i bertoni si spinge sino alle coste della Siria dove il granduca Ferdinando dei Medici ha stretto relazioni ed accordi con l’emiro Faccardino (Fakr-el-Din), capo dei drusi che abitano i monti fra Beirut e Sidone (Sayda). L’emiro favorisce i  ribelli del pascià di Aleppo (Halab) Giampulat che sono quasi riusciti a sottrarre una parte della Siria al dominio della Porta.
…………………ToscanaImpero ottomanoDurante la crociera è informato del passaggio di un convoglio che da Alessandria è diretto a Costantinopoli  con la scorta di 5 vascelli. Inizia a bombardare da lontano le navi di scorta per qualche ora. Le 2 galee grosse toscane puntano contro la capitana e la padrona della formazione; le 3 galee sottili rischiano, invece, di essere a loro volta catturate.  Sopraggiunge l’Inghirami con la sua galea e riaggiusta le cose: sono ridotti in schiavitù più di 400 uomini. In suo potere pervengono pure molti pezzi di artiglieria, Segue il ritorno a Livorno con abbondante bottino di mercanzie e di armi.
Aprile novembreToscanaImpero ottomanoSalpa da Livorno con una squadra di 5 galee rinforzate al fine di assalire la fortezza ed il borgo di Prevesa (Préveza) posti all’imboccatura del golfo di Arta (Amvrakikos). A bordo delle 5 navi dell’Inghirami sono imbarcati 400 fanti comandati da Federico Ghislieri. Il viaggio si presenta subito piuttosto travagliato a causa delle cattive condizioni del mare. E’ costretto a fermarsi a Civitavecchia; dopo nuove fermate al Monte Circeo, a Gaeta, a Pozzuoli e Palinuro giunge a Messina dove provvede a fare calatafare le carene delle sue galee ed a imbarcare ulteriori scorte di vettovaglie. Ai primi di maggio la squadra stefanesca giunge nelle vicinanze di Antipaxo. Nonostante la presenza nello Ionio di 4 fuste e di 13 galee ottomane decide di continuare le operazioni programmate. Cattura un caramussali nei pressi dell’isola di Paxo (Paxoi). A causa dei fondali troppo bassi le truppe sono sbarcate in una piccola baia a tre miglia dalla fortezza di  Prevesa tramite le scialuppe,  2 feluche noleggiate a Messina ed un brigantino siciliano. La città è circondata da profondi fossati;  le mura sono munite di numerosi torrioni; dispone, inoltre, di una guarnigione consistente il cui punto di forza è rappresentato da 300 giannizzeri; 80 sono i pezzi d’artiglieria tra grandi e piccoli (con 30 bombardieri) che sporgono minacciosi dagli spalti.  E’ subito occupato il borgo; è collocata una mina davanti alla porta del castello e la sua esplosione permette ai suoi uomini di penetrarvi; sono occupati 7 torrioni. Rimane solo l’ultimo (Castello di Boukas) in cui si sono asserragliati i giannizzeri il cui numero risulta fortunatamente inferiore al temuto (sole 17 unità) perché al momento dell’attacco molti di costoro risultano assenti. In contemporanea con l’azione terrestre dell’Inghirami si avvicina dal mare e dirocca con i suoi cannoni la fortificazione. Prevesa è messa a sacco, vengono incendiate le case del borgo, sono distrutte torri e capisaldi, viene data alle fiamme una galeotta nel porto, si imbarcano 47 pezzi di artiglieria nel caramussali catturato in precedenza mentre gli altri cannoni sono gettati in mare. L’ammiraglio toscano effettua un breve scalo a Paxo per redigere un accurato inventario del bottino: nelle galee sono condotti 200/300 schiavi, in gran parte donne e bambini, dei quali parte sono lasciati a Messina (coloro di cui si pensa vicino il riscatto). Gli altri, come i cannoni, vengono condotti a Livorno come schiavi. I toscani al termine del combattimento registrano la morte di 10 soldati, il ferimento di altri 35, di 5 marinai e di 3 vogatori. La squadra lascia Prevesa dirigendosi verso sud-ovest. Giunto a breve distanza da Leucade (Levkas) dà ordine alle galee di aprire il fuoco contro il centro abitato. Si avvicina alle mura senza suscitare alcuna reazione nei difensori. Rientra a Livorno dove gli è riconosciuto il grado di ammiraglio. Per festeggiare l’avvenimento il granduca farà dipingere da Iacopo Ligoro un quadro di grandi dimensioni in cui è rappresentata la conquista della piazzaforte ottomana. Il quadro sarà inserito in un vano del soffitto della chiesa dell’ordine a Pisa. A giugno lasciano Livorno 5 galee con a bordo un cospicuo numero di cavalieri dell’ordine e di fanti sempre agli ordini di Federico Ghislieri. Obiettivo, colpire la città di Foglie (Foggia) che sorge lungo la costa occidentale dell’Anatolia di fronte all’isola di Mitilene. Sosta a Roccella Ionica; è informato dalle autorità locali della presenza nelle loro acque di una galeotta ottomana di 17 banchi. La nave cerca di fuggire; la padrona riesce a raggiungerla. I corsari, a seguito della morte immediata di alcuni loro compagni, si arrendono. Sono liberati 3 cristiani e fatti prigionieri 99 uomini. Dopo tale successo si indirizza a Crotone per lasciarvi la galeotta catturata. Naviga verso il Levante. Cattura solo 3 piccoli legni in quanto il traffico mercantile locale è diminuito per la voce che lo dà presente in tali acque. 20 galee ottomane sono, inoltre, segnalate navigare nei dintorni. L’Inghirami preferisce così abbandonare il progetto di uno sbarco a Foglie per scorrere nell’Egeo alla caccia di navi mercantili. A fine mese avvista 2 velieri; alcuni marinai si muovono all’arrembaggio senza rispettare gli ordini ricevuti. E’ l’occasione per l’Inghirami di dimostrare come si mantiene a bordo delle sue navi la disciplina più assoluta: i vari episodi di insubordinazione che caratterizzano la vita marinaresca, come la scarsa attenzione nell’adempimento dei propri doveri, sono da lui puniti esemplarmente con condanne pluriennali alla voga, fustigazioni, e condanna al carcere a vita. A fine luglio si ferma nel porto di Taranto per la manutenzione degli scafi delle sue navi e per imbarcare le vettovaglie necessarie per la prossima campagna. Fa rotta su Crotone per recuperare la galeotta lasciatavi in precedenza che sarà venduta a Messina. Nella stessa città carica una partita di sete. Punta su Palermo; per il timore della peste gli è impedito di entrare nel porto se prima non sia passato un periodo di quarantena. A causa della mancanza di vettovaglie è costretto a rientrare subito a Livorno (metà agosto). Dopo una settimana le 6 galee della sua squadra (capitana, padrona “Firenze”, “Pisana”, “San Giovanni” e Santa Maria) ripartono per una nuova crociera, meta il sud. Tocca Napoli e Messina (quest’ultima località sempre per ragioni mercantili). Calatafate le carene  e prese a bordo le necessarie vettovaglie, la squadra si dirige verso l’Egeo. Nei pressi del promontorio dei Sette Capi si imbatte in un caramussali proveniente da Alessandria d’Egitto e diretto a Salonicco con le stive piene di riso, lenticchie, pepe, spezie e lino. A seguito di un bombardamento il caramussali cola a picco trascinando con sé il ricco carico ed un centinaio di ottomani; altrettanti sono raccolti dalle galee dell’ordine. A fine mese si porta nel golfo di Satalia (Antalya).   A fine agosto l’Inghirami si spinge con le sue galee verso l’isola di Rodi (Rodhos) per tentare  uno sbarco nel golfo di Satalia (Antalya), nell’antica Panfilia: viene informato dall’ equipaggio di un piccolo legno catturato che sulla costa si fa buona guardia in tutta la regione e che nella città vi infierisce la peste. Le lance e le fregate si avvicinano a terra allorché sulle mura compaiono molti armati. Iacopo Inghirami riesce a reimbarcare le  truppe sbarcate a terra con Federico Ghislieri sottraendole al pericolo in agguato. Il giorno seguente viene catturato  un caramussali  che per sfuggire alla morsa stefaniana si getta sulla costa (62 prigionieri). Il veliero è in grado di riprendere il mare con equipaggio toscano con meta Livorno. Nei pressi di Castelrosso (Megisti), la “Pisana” con l’appoggio della “San Giovanni” e della “Santa Maria” si appropria di un altro caramussali con un ricco carico di zucchero, riso, legumi, spezie e lino. Sono pure recuperati 10 pezzi di artiglieria, tra cui un vecchio cannone già a bordo di una galea stefaniana arenatasi nelle secche di Kerkennah. Tra Rodi e Scarpanto (Karpathos) la squadra intercetta 2 caramussali che viaggiano di conserva. Iacopo Inghirami divide le  galee in due gruppi: capitana, “Pisana” e “Santa Maria” affrontano il veliero più grande; padrona, “Firenze” e “San Giovanni” puntano contro il più piccolo. Entrambe le imbarcazioni sono costrette alla resa;   dotate di equipaggio toscano sono entrambe indirizzate a Livorno. A fine ottobre l’Inghirami scorre lungo le coste dell’Anatolia (Anadolu), il golfo di Alessandretta (Scanderun), il mare di Siria; transita a sud dell’isola di Candia (Kriti) per evitare conflitti con i veneziani e si dirige verso ponente. Si imbatte in alcune piccole navi algerine cui dà la caccia. Rientra nel porto labronico. La crociera è durata più di due mesi; è costata la vita ad una trentina di soldati ed il ferimento di altri 300; sono stati affondati un caramussali e catturati altri 4 con qualche piccola barca. I prigionieri sono 317; I cristiani liberati sono 110; il numero dei musulmani uccisi nei vari combattimenti è stimato in 500.  Il granduca a Firenze è informato che Amurat Rais sta scorrendo con una squadra corsara nelle acque della Corsica. L’Inghirami è costretto a capitanare la nuova missione. Si ammala gravemente; nonostante ciò controlla il litorale toscano spingendosi sino alle coste corse e sarde. Rientra a Livorno con un nulla di fatto dopo quindici giorni. Trascorre i mesi invernali a Volterra.
1606
AprileEsce da Livorno al comando di 6 galee con a bordo 150 cavalieri di Santo Stefano e 600 fanti. Si prefigge di occupare di sorpresa Laiazzo (Al Landhiqiyah), nel golfo di Alessandretta, sulla costa meridionale dell’Asia Minore a nord-est di Cipro (Kypros). Mentre si sta dirigendo a vela verso tale località sorprende presso l’isola di Scarpanto 3 caramussali, di cui 2 sicuramente turchi. Divide le sue forze: con la capitana, la “Firenze” e la “Santa Maria” attacca il veliero più imponente, mentre padrona, “San Cosimo” e “San Giovanni” impegnano quello più piccolo. E’ dato l’arrembaggio alle 2 navi; i loro equipaggi si arrendono a seguito di un breve bombardamento. L’Inghirami viene successivamente a conoscenza che anche il terzo caramussali è ottomano, anziché greco come da sua ipotesi iniziale. Anche questo veliero viene catturato. Nel corso del combattimento i toscani subiscono la perdita di 11 morti e di 75 feriti; gli ottomani rimasti uccisi sono 100 e 84 i prigionieri.
MaggioA metà mese è di fronte a Laiazzo; fa salire su una feluca il cavaliere Sarcinelli, di Orvieto;  al tramonto lo invia in perlustrazione. Nella notte sbarcano a dieci miglia dalla città cavalieri e soldati. Sono superate le paludi vicine;  le milizie il mattino presto entrano nella località dal lato meno munito. Arrivano in soccorso dei difensori 5000 fanti e 600 cavalieri turchi mentre i toscani si sono sbandati per darsi al saccheggio. Secondo un’altra versione l’attacco si ferma subito davanti ad una porta, terrapienata dai turchi già in occasione di un precedente assalto dei ribelli al sultano. Intervengono i soccorsi ottomani. L’Inghirami, che è pure riuscito ad impadronirsi nel porto di 5 navi a vela mercantili, cariche di vettovaglie destinate alla locale guarnigione, accorre con le sue galee fin quasi sulla spiaggia ed a stento riesce ad imbarcare una settantina di prigionieri e quasi tutti i fanti. Tredici morti e 36 feriti sono le perdite registrate dalla sua squadra. Più successo avranno i successivi attacchi a Namur (Anamur o Niamare Kalesi) ad ovest del golfo di Alessandretta e quello a Finica (Finike) in Caramania (Karaman). Nel primo assalto, compiuto con 300 soldati e 150 marinai, vi partecipa di persona lo stesso Inghirami, che lascia il comando della sua capitana al modenese Scipione Cortesi. Viene sbaragliato con facilità un piccolo contingente di turchi, si cinge d’assedio la località. Dopo la distruzione della porta con le mine, i toscani irrompono in una città semideserta. Vengono uccisi i pochi difensori; ci si abbandona al saccheggio. Sono asportati otto cannoni. Mentre si sta trasferendo l’artiglieria giunge un forte contingente di cavalieri e di fanti ottomani. I turchi aggrediscono i toscani; a seguito di un lungo contrasto in cui perde la vita il sangiacco, l’Inghirami si ritira con lentezza verso la spiaggia, fa formare un quadrato dentro al quale sono raccolte le prede. Respinge l’attacco nemico; reimbarca i suoi uomini nelle galee dando fuoco a due grossi mucchi di grano e di orzo che si frappongono tra lui e gli avversari fungendo da cortina protettiva. Porta con sé la bandiera o cornetta del bey della Caramania conquistata a prezzo della vita dal soldato de Ruggero.
Giugno luglioRiprende il mare verso occidente;  giorni dopo piomba improvvisamente sul castello di Finica, nel golfo omonimo in Cappadocia, non lontano da Capo Celidonio (Karatas Burun). Lo sbarco avviene di notte a tre miglia dal castello. Due ufficiali abbassano il ponte levatoio recidendone le catene; ne viene abbattuta la porta con una mina; vi entrano fanti e cavalieri. Sono uccisi tutti i difensori che oppongono una resistenza accanita per non essere fatti schiavi; dei toscani cadono solo due soldati. Sono catturate 305 persone, quasi tutte donne e bambini con la moglie e la figlia dell’aga deceduto valorosamente alla testa dei suoi giannizzeri. E’ presa una bandiera. Viene dato fuoco alle abitazioni e dieci cannoni sono caricati sulle galee. La flotta dei cavalieri corre un grave rischio presso l’isola di Candia in quanto è caricata più del dovuto di schiavi, artiglierie e merci. 9 galee ottomane cercano di tagliarle la strada. Si rompe l’albero di maestro della galea “Firenze” e, poco dopo, quello della “San Giovanni”. L’Inghirami non si perde d’animo e fa disporre a quadrato 4 galee: le 2 galee in difficoltà hanno così il tempo di riparare i danni prima che le navi avversarie giungano a portata di balestra. La flotta toscana torna così ad allargarsi e, favorita dal vento, perde di vista i nemici. Naviga a breve distanza dalla fortezza dell’isola di  Coo (Kos) che bombarda con i suoi cannoni. A fine mese giunge a Messina. Ai primi di luglio nelle vicinanze di Livorno si imbatte in un brigantino barbaresco di 17 banchi. L’unità è catturata con 34 prigionieri. A metà mese la squadra rientra a Livorno dopo più di tre mesi di navigazione.
Agosto  ottobreE’ rimandato in corso lungo le coste toscane e le isole del Tirreno. Salpa con 4 galee in quanto le altre 2 sono ancora sottoposte a lavori di manutenzione. Pattuglia le coste settentrionali della Corsica, di Capraia e dell’isola di Gorgona perché alcune navi barbaresche negli ultimi giorni hanno effettuato numerosi colpi di mano ai danni di piccole imbarcazioni trasportanti legname da Capo Corso a Genova. A Livorno.  Gli è ordinato di portarsi con 7 galee nel porto di Messina dove vi sono radunate 49 galee cristiane (4 pontificie, 4 di Genova, 4 di Malta, 7 di Sicilia, 7 di Toscana, 7 di Carlo Doria, 6 di Napoli). La flotta è agli ordini del marchese di Santa Cruz luogotenente del principe Emanuele Filiberto di Savoia. L’Inghirami se ne resta inattivo assistendo ad alcune schermaglie dialettiche, prima tra i cavalieri di Malta ed i genovesi per ragioni di precedenza; poi tra Papirio Bussi, capitano dei pontifici, e lo stesso marchese di Santa Cruz. A Capo Colonna sono avvistate 4 galee di Biserta (Banzart) pronte a scorrere lungo le coste calabresi. Poiché non tutte le navi della flotta sono pronte a salpare il marchese di Santa Cruz dispone che siano le 6 capitane a dare la caccia agli avversari. L’Inghirami salpa per penultimo; dopo dieci ore con oltre sessanta miglia di caccia raggiunge la padrona di Biserta. Apre il fuoco con i cannoni di mezza portata, spara, poi, con il cannone di corsia; la investe, da ultimo, con il rostro. Nasce una mischia sanguinosa, in cui lo stesso Inghirami rimane colpito da tre palle di moschetto (una alla testa, neutralizzata dall’elmo; una allo stomaco, bloccata dal robusto pettorale; la terza alla coscia, non protetta, tre dita sopra il ginocchio). La violenza del mare non permette l’abbordaggio; si ritrae; disalbera con l’artiglieria la galea avversaria e la conquista. Il bastimento viene trainato a Messina. La nave, il rais, il secondogenito di Hassan Rais, e l’armamento spettano ai toscani; 130 schiavi, dei quali diciassette morranno durante il tragitto per le ferite riportate, su decisione del marchese di Santa Cruz saranno divisi tra le rimanenti 5 navi; vengono liberati dai banchi 203 cristiani. Rientra in Toscana. A causa delle sua cattive condizioni di salute, dovute alle recenti ferite, il comando della squadra stefanesca è preso temporaneamente da Scipione Cortesi. Per curarsi, Iacopo Inghirami trascorre tutto il periodo invernale a Volterra.
1607
MarzoToscanaCorsari barbareschiRistabilitosi provvede all’approntamento della squadra stefaniana per una nuova spedizione in Levante; fa pure risistemare alcune vecchie galee da utilizzare come ospedali galleggianti per i vogatori ammalati. Obiettivo del granduca Ferdinando dei Medici è quello di assalire   nell’isola di Cipro (Kypros) Famagosta (Ammokhostos). Sono arruolate truppe anche in Francia ed in Olanda per un totale di 1800 soldati. Oltre alla squadra di galee sono approntati anche 9 velieri, 5 dei quali (bertoni) affidati al conte Alfonso Montecuccoli, uno il galeone “Livorno” al capitano Scipione Cortesi ed altri 3, di proprietà della granduchessa Cristina di Lorena, al corsaro francese Jacques Pierre. La responsabilità della spedizione è affidata ad Antonio dei Medici coadiuvato da Francesco del Monte a Santa Maria. Al termine dell’imbarco di soldati e di vettovaglie i primi a lasciare Livorno sono i 3 velieri del Pierre ed i 5 del Montecuccoli. Costoro si dirigono separatamente in Levante con il compito di intercettare navi ottomane e di trovarsi tra fine maggio e metà giugno nel tratto di mare tra Capo Celidonio e Sette Capi dove vi sarebbe stato il ricongiungimento generale con la squadra delle galee e con il galeone “Livorno”.
MaggioToscanaImpero ottomanoA metà mese esce in campagna con 8 galee: capitana, padrona, “Firenze”, “Livornina”, San Cosimo”, San Giovanni”, Santa Margherita”, “Santa Maria”. A bordo delle sue navi si trovano anche Antonio dei Medici e Francesco del Monte a Santa Maria.
Giugno luglioGiunge a Messina; a Reggio Calabria sono calatafate le carene delle galee. Supera Capo Spartivento Si dirige verso Cerigo (Kithira). Da un mercantile greco i granducali sono informati che le scale preparate per superare le mura di Famagosta sono troppo corte. Antonio dei Medici provvede a fare allungare quelle già disponibili. A metà giugno Iacopo Inghirami è segnalato nelle acque tra Capo Celidonio e Sette Capi. Si incontra all’appuntamento con 2 soli velieri di Jacques Pierre, in quanto il corsaro francese ha distaccato il terzo alla caccia di un mercantile ottomano. Si decide di procedere lo stesso ad attaccare Famagosta. I reparti trasportati dalle navi del Pierre sono trasferiti a bordo delle galee. Antonio dei Medici sbarca nottetempo con le truppe in una cala nascosta a tre chilometri da Famagosta. I fanti toccano terra tramite scialuppe perché le imbarcazioni non sono in grado di avvicinarsi a riva. Le mura sono sempre più alte delle scale a disposizione; manca, inoltre, l’effetto sorpresa; sono accesi numerosi falò sulle mura ed entrano in azione le artiglierie. I soldati avanzano sotto la pusterla, abbattono la palizzata che la protegge e cercano di minare la porta. Sono respinti alcuni tentativi dei cavalieri di Santo Stefano di scalare le mura. Alle prime luci dell’alba Francesco del Monte a Santa Maria ordina la ritirata generale e riconduce i soldati alle galee.   La cavalleria turca esce dalla piazza e con ripetute cariche incalza i toscani fino al bagnasciuga. Interviene l’Inghirami con i cannoni di corsia caricati a mitraglia;  con il tiro d’artiglieria obbliga i turchi alla fuga. L’ammiraglio toscano cerca ricovero in un’insenatura vicina nell’attesa che, come da premessa dell’azione,  si sollevi la popolazione greca. La sera stessa la squadra stefanesca è raggiunta dai 2 velieri di Jacques Pierre e dal galeone “Livorno”; subito dopo vi è il ricongiungimento generale anche con il terzo veliero del corsaro francese ed i 5 bertoni del Montecuccoli. Compaiono solo alcuni contadini male armati; nonostante ciò Francesco del Monte a Santa Maria vuole ripetere il tentativo e muove con una parte delle truppe verso i borghi di Famagosta che formano la città vecchia. Fallisce anche tale assalto; alcuni avventurieri francesi si sbandano dal campo e cadono in un agguato; molti soldati sono catturati, e ridotti  in schiavitù; i rimanenti raggiungono a nuoto le navi: le perdite complessive ammonteranno a 200 uomini. I toscani si ritirano dalle acque di Cipro tanto più che a bordo si sono sviluppate delle malattie infettive che uccidono molti combattenti tra i quali Alfonso Montecuccoli. L’Inghirami si dirige verso Mitilene (Mitilini) e da qui prende la strada per Reggio Calabria. Durante la sosta il galeone “Livorno” cattura un veliero che ha urgente necessità di riparazioni. Iacopo Inghirami ne approfitta per inviare 2 galee a Messina su cui imbarcare una partita di sete destinata alla Toscana. Fa a sua volta rotta verso Livorno. Durante la navigazione al largo di Anzio si imbatte in 6 galee francesi; dopo alcune ore incontra anche 5 pontificie e 2 sabaude.
AgostoToscanaAlgeriA Giannutri avvista 8 galee genovesi. Il giorno seguente è a Livorno. Il rovescio subito a Cipro spinge il granduca di Toscana a cercare una rivincita. Si tenta un analogo colpo a Bona (Annaba), munita piazzaforte del locale dey nell’Algeria settentrionale, anche per vendicare l’uccisione di alcuni cavalieri dell’ordine caduti di recente nelle mani degli algerini a causa di un naufragio. Un convoglio di 9 galee (di cui 6 appartenenti all’ordine di Santo Stefano e 3 battenti la bandiera granducale), di 2 galeoni e di 3 bertoni (questi ultimi comandati dal Beauregard e che alzano l’insegna della granduchessa Cristina di Lorena) salpa da Livorno a fine mese. A bordo della flotta vi sono 2000 uomini tra cavalieri di Santo Stefano, fanti (1800) e venturieri: le milizie di terra sono comandate da Silvio Piccolomini. All’isola d’Elba il capitano generale della fanteria da sbarco fa esercitare le truppe a sua disposizione in quanto gran parte di essa non ha mai partecipato ad operazioni di carattere anfibio. Sono, inoltre, sostituiti 50 soldati, rivelatisi incapaci ad affrontare le necessità, con altrettanti militi della guarnigione di Portoferraio. La flotta si divide in due gruppi: il Beauregard salpa subito  con i bertoni per dirigersi verso l’isola di La Galite, mentre l’Inghirami con le 9 galee si pone alla caccia del corsaro barbaresco Amurat Rais, segnalato incrociare con 9 galee nelle acque dell’arcipelago toscano. L’ammiraglio riprende la navigazione tra le isole di Montecristo, Pianosa e la Corsica avendo l’accortezza di viaggiare di notte. Amurat Rais lascia la Corsica e si indirizza verso il Levante.
Settembre dicembreTocca Capo Polla presso Cagliari; fa sosta in tale porto per rifornirsi d’acqua, rifornirsi di vettovaglie e sbarcarvi alcuni marinai e soldati infermi. Ripresa la traversata, questa è ostacolata da un forte maestrale. Cala il vento ed a metà mese  è in vista della Barberia. Il pilota della capitana sbaglia il punto di approdo e finisce contro una costa alta e rocciosa. Si perdono così ore preziose alla ricerca di un luogo meno impervio per lo sbarco. Trovatolo, a causa dei bassi fondali esso risulta inidoneo alla discesa a terra direttamente dalle galee e dai vascelli: si deve ricorrere alle fregate, agli schifi, ai caicchi ed alle feluche per cui le operazioni di sbarco possono terminare solo alle prime ore del mattino. Le truppe si mettono in marcia contro Bona a giorno chiaro. Il Beauregard marcia in testa; dietro di lui si pongono capitani francesi, inglesi ed italiani; ogni compagnia è munita di tutte le attrezzature di assedio. La città, sede di corsari, è abitata da 6000 abitanti, di cui 2000 abili alle armi. Silvio Piccolomini dà l’ordine di assalire senza indugio la fortezza (il Beauregard) e la città alla porta davanti alla fortezza (Giovanni Brancadoro), a quella verso il retroterra (Ambrogio Bindi) ed a quella che dà verso il mare (Giovanni Andrea Ricchelmi).   L’attacco alle mura del forte si conclude in maniera positiva; sono conquistate la cinta esterna e quella interna; la porta della città, come quella del castello, vengono fatte saltare con una mina. Gagliarda è la resistenza dei mori: 1000 si asserragliano in una moschea finché i difensori sono sopraffatti dal fuoco nemico. Dal mare, in contemporanea, le navi dell’Inghirami mettono a tacere 3 cannoni che da un torrione posto sulla costa hanno cominciato a sparare contro di esse. Dopo sei ore non c’è più traccia di difesa e la città viene messa a sacco. Inghirami si colloca, poi, con le galee ed i vascelli lungo la strada che deve essere percorsa dalla cavalleria nemica che cerca di venire in aiuto degli abitanti di Bona. Bombarda dal mare la colonna dei soccorritori  respingendo ogni intervento a favore dei difensori della città. Nello scontro vengono uccisi nel complesso 460/470 nemici, per lo più i giannizzeri del presidio, sono conquistate 12 bandiere che adorneranno più tardi la chiesa di Santo Stefano a Firenze;  1464 persone, tra uomini, donne e bambini, sono ridotte in schiavitù.  Le perdite degli attaccanti risultano tra soldati e cavalieri di 42/70 unità secondo le fonti. Il reimbarco delle truppe, dei prigionieri e del bottino avviene nel corso della notte. L’Inghirami dirige subito la sua squadra alla volta di Cagliari. Sosta in tale porto per due giorni per vendere su tale mercato il maggior numero di schiavi possibile, perché a Livorno si sarebbe determinato un loro sovraffollamento con relativa diminuzione dei prezzi. A fine mese il convoglio rientra a Livorno. Gli abitanti della città toscana si recano tutti nel duomo per un Te Deum ed una messa di ringraziamento per la vittoria. Con il bronzo dei 5 pezzi di artiglieria conquistati verrà eretta a Firenze, nella piazza dell’ Annunziata, una statua in onore di Ferdinando dei Medici. Al termine delle operazioni sono messe in disarmo le galee “Firenze”, “Santa Maria” e “Santa Maria Maddalena” ritenute di minore valore bellico. Problematico risulta sempre la vendita dei prigionieri sui mercati degli schiavi di Napoli ed in Sicilia. 6 galee partono a tal fine nei primi giorni di ottobre per vendere nella città partenopea il surplus di schiavi ricorrendo all’utilizzo anche di forti sconti. Nella città partenopea un inviato del capitano pontificio Alessandro del Monte chiede all’Inghirami di  trasportare da Napoli a Messina, su una galea di Santo Stefano, due frati francescani che devono recarsi in tale città. La galea è la “San Cosimo” comandata da Vanni d’Appiano. Quest’ultimo, a causa di un recente litigio avuto con alcuni frati del medesimo ordine, si rifiuta ripetutamente di obbedire. Vanni d’Appiano perde il suo incarico e deve rientrare immediatamente in Toscana. A fine ottobre l’Inghirami si sposta a Messina ed a Milazzo per continuare a vendere sui vari mercati i prigionieri di Bona. E’ giunto il momento del rientro in Toscana. Una tempesta sorprende la squadra obbligando l’Inghirami a rifugiarsi a Gaeta a causa dei gravi danni subiti nella navigazione dalla padrona e dalla “Santa Margherita”.  La sosta dura un mese per le pessime condizioni atmosferiche: si ammalano molti soldati, marinai e vogatori per il grande freddo. Alcuni di essi muoiono. A Natale il tempo migliora; sono ultimate le riparazioni più urgenti delle 2 galee e la squadra guadagna alfine il porto di Livorno.
1608
AprileToscanaImpero ottomanoNelle acque della Corsica e della Sardegna ha inizio la prima crociera della stagione della squadra stefanesca il cui scopo è quello di intercettare i legni barbareschi. A fine mese l’Inghirami salpa da Livorno alla testa di 6 galee (capitana, padrona, “Livornina”, “San Cosimo”, “San Giovanni”, “Santa Margherita”). Dopo una sosta a Cagliari è pianificata una rapida incursione sulle coste maghrebine per dare la caccia a qualche mercantile musulmano. A metà maggio la squadra lascia la Sicilia; nel corso di una tempesta nei pressi di Pantelleria è avvistato un veliero che trasporta un contingente di truppe ed  una grande quantità di munizioni destinati ai presidi siciliani. L’Inghirami interviene prendendo a rimorchio l’imbarcazione in avaria e la porta in salvo nella vicina isola di Pantelleria. Riprende la navigazione. A fine mese nelle vicinanze dell’isola di Zembrah si imbatte in un piccolo natante che trasporta sale, molti barracani e 6 piccoli pezzi di artiglieria. La “Livornina”, comandata da Giuseppe Sgraffigna, si impadronisce del piccolo bastimento con la cattura di otto uomini. I cannoni trovati nella stiva sono caricati sulle galee; la nave è abbandonata in mare con parte del carico. Si decide di rientrare nel Tirreno; sono controllate le Bocche di Bonifacio ed a metà giugno la squadra rientra a Livorno. A Iacopo Inghirami è affidato subito il compito di affiancare con le sue 6 galee l’azione del Beauregard in Levante. Scartata l’ipotesi di assalire Rosetta (Rashid), una cittadina posta a circa cinquanta chilometri da Alessandria d’Egitto, si decide di agire in Morea a Patrasso (Patrai) ed a Navarino (Pilos). A fine mese lascia Livorno puntando sull’isola d’Elba. Le truppe di fanteria sono comandate dal colonnello Ambrogio Bindi. La squadra si dirige verso la Corsica, la Sardegna e la Sicilia. A metà luglio entra in Messina per calatafare le carene ed imbarcare vettovaglie per la prossima campagna. Nella città noleggia 2 feluche per permettere lo sbarco in fondali come quelli che caratterizzano Navarino. Riprende la navigazione; sono ora toccate Reggio Calabria e Cefalonia (Kefallinia). L’obiettivo è Navarino. Una feluca esplora il litorale per trovare un punto di approdo agibile per lo sbarco della fanteria. Durante la notte un prigioniero musulmano riesce a fuggire ed a dare l’allarme in città. L’Inghirami ed il Beauregard giungono a pochi chilometri dalla località; nello stesso tempo i marinai della feluca si accorgono come in Navarino le milizie siano particolarmente attive, pronte a difendersi sulle mura. Dal momento che non si può contare sul fattore sorpresa l’Inghirami decide di rinunciare all’impresa. Ad agosto incrocia al largo di Capo Celidonio; sono catturati 2 velieri ottomani diretti ad Alessandria d’Egitto che trasportano legname. 48 marinai sono fatti prigionieri. Un terzo veliero, appartenente ad un armatore greco, è lasciato proseguire indisturbato. A metà mese la squadra sosta nell’Isola Provenzale per spalmare le carene ed affondare i 2 velieri catturati pochi giorni prima. La sera seguente, nello stesso tratto di mare, i toscani si imbattono in un natante greco con sedici passeggeri musulmani (fatti prigionieri). Si porta al largo di Capo Celidonio ed a fine mese si ricongiunge con il Beauregard. I due capitani si incontrano per concordare una comune operazione anfibia. La scelta cade ancora su Bona. Le condizioni atmosferiche peggiorano per cui viene cambiato l’obiettivo da colpire. Il corsaro francese suggerisce Alaya/Agva, sulla costa della Caramania (Karaman), dal Beauregard attaccata invano  nei mesi precedenti. La nuova formazione navale si dirige verso Alaya. Il Beauregard fa trasferire a bordo delle galee i soldati imbarcati sui galeoni e sui bertoni. Agli inizi di settembre è individuato il punto in cui mettere a terra i fanti. Le galee si portano a ridosso della costa facendo sbarcare le truppe. Queste si incamminano verso la fortezza. I turchi sono preparati a respingere l’assalto. Nonostante le perdite le milizie granducali riescono ad arrivare sotto le mura della cittadina. Sono appoggiate le scale ai bastioni: queste risultano ancora una volta troppo basse. Ha inizio il ripiegamento. L’Inghirami si accosta alla riva iniziando con le artiglierie un efficace fuoco di copertura fino a quando l’ultimo soldato è in grado di risalire a bordo delle galee. Il giorno seguente si avvicina di nuovo al litorale in un luogo non molto distante da Alaya per approvvigionarsi di acqua dolce. Mentre i marinai sono impegnati in tale attività si presenta l’emissario di un bey locale ribellatosi agli ottomani. Anche costui desidera impadronirsi di Alaya;  propone pertanto di unire le forze per tentare un nuovo assalto. E’ conclusa l’alleanza con Masoli Bey. Le navi toscane si presentano davanti ad Alaya; nello stesso tempo, secondo i piani predisposti, i ribelli, accampatisi a tre chilometri dalla città, avrebbero dovuto aggredirla da terra. Il Beauregard e l’Inghirami di propria iniziativa iniziano con le loro navi a bombardare il centro. Sono sparati 200 colpi ma da terra non si verifica alcun tentativo di assalto. Nello stesso pomeriggio è fermato un veliero greco dalla padrona e dalla “Livornina”: 84 passeggeri musulmani sono fatti prigionieri. Masoli Bey, nel frattempo, rimanda in continuazione il suo intervento accampando sempre nuove motivazioni. Alla fine le due squadre si allontanano e si separano ognuno per la propria direzione, verso occidente, a causa della scarsità di vettovaglie. Invano il Beauregard chiede all’Inghirami che siano distaccate 2 galee in appoggio alle sue operazioni. Gli è data risposta negativa. Nel corso della sua navigazione la squadra dei cavalieri di Santo Stefano avvista 3 velieri molto distanti l’uno dall’altro: si tratta di due corsari cristiani che stanno dando la caccia ad un caramussali. Quest’ultimo con il favore del vento riesce a sfuggire ai suoi predatori, nonché alla padrona ed alla “Santa Margherita” lanciate dallo Inghirami al suo inseguimento. Le galee, infine, si dirigono verso l’Italia per la presenza a Modone (Methoni) di una forte flotta ottomana. A fine mese è toccata Reggio Calabria dove la squadra stefanesca può finalmente rifornirsi delle provviste necessarie. A Messina. Nel porto sono ormeggiate le galee pontificie e maltesi. Qui l’Inghirami riceve l’ordine dal granduca di mettersi a disposizione del viceré di Sicilia, il duca di Escalona Juan Fernando Pacheco. Con la cessazione del pericolo che giustifica la presenza di tante navi da guerra nel porto la squadra, agli inizi di ottobre, può riprendere la via per la Toscana. Nel corso del viaggio è toccata Palermo; sono pattugliate le coste orientali della Sardegna e quelle occidentali della Corsica. A fine mese Iacopo Inghirami giunge a Livorno dopo quasi quattro mesi di assenza. A novembre il granduca Ferdinando dei Medici lo riconferma nella sua carica di ammiraglio.  1609. Febbraio. Muore Ferdinando dei Medici; viene eletto al suo posto come granduca il figlio Cosimo. I funerali si svolgono nel duomo di Firenze. A marzo l’Inghirami si reca per una missione in Spagna con le sole padrona e “San Giovanni”. A maggio si prepara per una nuova spedizione in Levante la cui durata è prevista in quattro mesi. Poiché nelle galee non si può caricare una quantità di provviste superiore al fabbisogno di due mesi si decide che la squadra sia accompagnata da un galeone, il “San Giovanni Evangelista” nelle cui stive sono immesse 122 tonnellate di gallette, 6 tonnellate di formaggio, 3 di carne salata, 36 casse di tonno, 120 barili di olio, 100 botti di vino e 15 di aceto. Le galee sono 6: capitana, padrona, “San Cosimo”, “San Giovanni”, Santa Margherita”, “Santa Maria Maddalena”. Prima tappa è l’isola d’Elba. La squadra prosegue per il Tirreno meridionale fino a giungere a Reggio Calabria: sono qui acquistate gallette e sono calatafate le carene delle galee. A fine mese la squadra entra nell’Egeo. A giugno la formazione corsara è segnalata nei pressi di Capo d’Oro situato lungo la costa orientale dell’Eubea: è catturata una barca che trasporta rame con un equipaggio di 5 turchi. Il giorno seguente costringe alla resa un paio di bastimenti musulmani: il bottino consiste in una certa quantità di grano e formaggio per il primo natante e di un carico di vasellame di scarso valore per il secondo. Le 2 navi sono affondate con parte delle merci per il loro cattivo stato di conservazione. A metà mese è davanti ai Dardanelli (Canakkale Bogazi); nei pressi dell’isola di Tenedo (Imroz) ingaggia un vivace combattimento con un veliero ottomano dotato di 6 pezzi di artiglieria. La nave è martellata dal fuoco dell’artiglieria delle galee dell’ordine. L’equipaggio si getta in mare per sfuggire alla cattura: dodici sono i prigionieri. Nel canale di Mitilene (Mitilini) è intercettata un’altra piccola unità. I marinai fuggono a terra; sono inseguiti dai fanti imbarcati a bordo che li catturano. Il medesimo giorno viene controllato un veliero greco: i passeggeri musulmani ed ebrei sono condotti in catene nelle galee e le loro merci sono sequestrate. Si sceglie poi di seguire la costa meridionale dell’Anatolia. E’ scorto un brigantino barbaresco. L’equipaggio cerca di fuggire nell’isola di Nasso (Naxos): è sterminato dagli abitanti di origine greca stanchi delle loro passate vessazioni. A fine mese è inseguito senza frutto un altro bastimento mercantile; la squadra giunge all’Isola Provenzale dove si collega con il “San Giovanni Evangelista”. Sono trasferite nel galeone, che viaggia di conserva con le galee, parte delle merci trafugate, nonché i pezzi di artiglieria procurati durante i saccheggi delle imbarcazioni; 62 sono i prigionieri. Sempre all’Isola Provenzale  sono calatafate tutte le carene della flottiglia stefanesca. A metà luglio sono scoperti 2 brigantini, di 8 e 9 banchi rispettivamente. L’equipaggio per evitare di essere ridotto in schiavitù, si butta sulla costa. I fanti toscani si mette alla sua ricerca: la caccia termina con la cattura di sette persone. Proseguendo nella navigazione al largo di Tripoli di Siria (Tarabulus) è avvistato un ulteriore bastimento: la “San Cosimo” ha l’ordine di prenderlo all’abbordaggio. Nel corso di tale operazione la nave subisce forti avarie per cui viene affondata. Sono recuperati 33 naufraghi e parte del carico del veliero consistente in sacchi di tabacco. A capo Himir è bloccato un altro legno che trasporta sale. L’equipaggio fugge a terra; sono anche iniziate trattative per la liberazione dei prigionieri dietro il pagamento di un riscatto. A fine mese durante una sosta a terra per rifornirsi d’acqua potabile è controllato  un mercantile greco: a seguito dell’ispezione sono messi alla catena sette passeggeri. A metà agosto l’Inghirami prende la decisione di ritornare in Italia perché non si riescono più a scovare nuove prede; a Chio (Khios), inoltre, è segnalata la presenza di una formazione ottomana di 15 galee. Segue (settembre) l’usuale fermata a Reggio Calabria che permette di riempire le stive ormai vuote di vettovaglie. E’ finalmente raggiunta Livorno (ottobre) dopo 155 giorni di crociera. Per l’Inghirami l’attività non è tuttavia finita: a metà mese, con 5 galee, attiva un’azione di pattugliamento del Tirreno settentrionale: nell’arsenale è stata lasciata la padrona che necessita di profondi lavori di manutenzione. Si dirige verso la Corsica. E’ segnalato a Bastia, nelle cui acque sono avvistati diversi legni corsari. Nelle Bocche di Bonifacio la squadra sorprende 2 brigantini barbareschi di 11 e 12 banchi. In una discesa a terra per rifornirsi d’acqua potabile (novembre) un’onda anomala travolge una scialuppa con a bordo l’aguzzino (il responsabile dei ritmi dei rematori) della “San Giovanni”, 4 marinai e 22 vogatori: 12 sono i morti affogati, tutti addetti al remo. Con il miglioramento del tempo la squadra continua a sorvegliare le coste della Sardegna, della Corsica e della Toscana. Sul piano politico la novità è data dal sultano che pensa di trattare con il nuovo granduca di Toscana Cosimo dei Medici;  gli offre libero commercio nel dominio della Porta in cambio dell’annullamento di ogni azione di guerra di corsa ai suoi danni.
1610
Febbraio aprileA febbraio riceve l’ordine di preparare 2 galee per recarsi in Spagna al fine di ritirarvi una grossa somma di denaro: per esplicare tale missione sono scelte la capitana e la “Santa Maria Maddalena.” Salpa da Livorno a fine mese. Agli inizi di marzo il tempo si guasta; l’Inghirami è costretto a riparare a Port de Bouc dove rimane fermo una quindicina di giorni. Ripresa la navigazione al largo di Palamos scorge un veliero ed una scialuppa che stanno inseguendo un mercantile francese. Segue un reciproco fuoco di artiglieria tra i due contendenti:  i corsari si arrendono dopo avere subito la morte di 5 uomini  e il ferimento di altri 5; tra i toscani le perdite sono più sensibili (8 morti e 12 feriti). Caricati prigionieri, 3 cannoni e le gallette rinvenuti nel veliero si dirige a Palamos dove è costretto a fermarsi per il cattivo tempo. Nel porto spagnolo è venduta la nave barbaresca mentre la scialuppa è consegnata come elemosina al locale santuario della Madonna della Guardia. Di seguito si porta a Barcellona in attesa di disposizioni dell’ambasciatore granducale alla corte spagnola. Per non rimanere inattivo si dirige a Cartagena da dove  effettua alcune crociere alla ricerca di legni corsari.
Maggio giugnoA metà maggio terminano a Cartagena ed a Barcellona le operazioni  di imbarco del denaro contenuto in 200 casse. Il re di Spagna Filippo III gli ordina di scortare sino a Livorno, con alcune galee della squadra di Napoli, Pedro Fernando de Castro, conte di Lemos, destinato a raggiungere la città partenopea per il suo nuovo incarico di viceré. A metà giugno l’Inghirami è nuovamente a Livorno. Deve recarsi a Firenze per pianificare con il granduca Cosimo dei Medici una  operazione anfibia lungo le coste dell’Africa settentrionale.
LuglioObiettivo è Djidjelli. L’alternativa è rappresentata tra Tenés, Cherchell e Bicchieri/Bischeri/Biskra (Abu Kabir).
AgostoToscanaCorsari barbareschiNaviga alla testa di 7 galee. A bordo di esse è imbarcato un contingente di 761 fanti agli ordini del colonnello Ambrogio Bindi. Tocca la Corsica; giunge ad Alghero ove fa acquistare oltre alle vettovaglie anche 3 imbarcazioni usate dai pescatori di corallo. Durante il viaggio entra a contesa con il capitano delle galee dell’ordine gerosolomitano, che fanno parimenti parte della spedizione, per questioni di saluti e di precedenza. A metà mese si avvicina alla costa nordafricana; è scelto il punto più idoneo allo sbarco. Il mare diviene troppo agitato per potere proseguire nell’azione programmata per cui si è costretti a ritornare al largo. Calmatesi le onde è inviata in avanscoperta una feluca per condurre le squadre al punto scelto per lo sbarco della fanteria. Gli esploratori non riconoscono alcuni punti caratteristici della costa per cui la squadra è condotta proprio davanti a Djidjelli. Il fuoco della fortezza convince gli attaccanti a desistere dall’iniziativa ed a riprendere il mare. La squadra stefanesca si accosta alla terraferma per potersi rifornire d’acqua: si decide di assalire Bicchieri o Bischeri o Biskra (Abu Kabir). Con 2 galee, la capitana e la “Livornina”, investe e cattura presso Algeri un grosso vascello; sono fatti 70 prigionieri, tra turchi ed ebrei e viene restituita la libertà a quattro cristiani; nell’occasione si impossessa pure di 6 cannoni, di 4000 scudi in contanti, di merci per un valore di altri 1500 scudi. Si volge ora con le 7 galee alla volta di Bicchieri  piccolo castello situato sulla costa a ottanta miglia ad ovest di Algeri. Nella località vivono 1000 persone, di cui 200 sono abili alle armi. A metà mese giunge all’alba sul litorale; lo sbarco avviene in un punto non sorvegliato; l’attacco conseguente richiama gran parte della guarnigione alla difesa di tale posizione. Nel contempo, Ambrogio Bindi  ordina un assalto in un altro punto: qui opera un secondo contingente che appoggia le scale alle mura, le supera senza trovare una forte opposizione e dilaga all’interno della fortezza. Viene vinta la resistenza dei turchi; gli avversari si rinchiudono in una moschea. I difensori si arrendono a discrezione; nonostante ciò essi sono fatti massacrare da Ambrogio Bindi. Sono catturate 479 persone, di cui molti sono donne, bambini e moriscos; sono asportati, inoltre, 14 pezzi di artiglieria, armi e munizioni in grande quantità. Tra i toscani si registrano 8 morti, 300 tra i mori. Durante la fase della ritirata compaiono in armi molti abitanti del circondario: il fuoco d’artiglieria della galea “San Giovanni” è sufficiente a disperdere gli intervenuti. La squadra riprende il mare con il bottino e si dirige verso Algeri.  Si imbatte  in 2 galeotte algerine che stanno rimorchiando un grande veliero (già appartenente ad armatori cristiani di Cipro) verso il porto di Algeri. I corsari abbandonano la loro preda alla vista della squadra stefaniana. L’Inghirami con la capitana recupera subito tale imbarcazione ed affida il compito di trainarla alla “San Cosimo” ed alla “Santa Margherita”; con l’ausilio delle altre galee insegue per centoventi miglia le 2 galeotte. Ne cattura una di 28 banchi e guadagna altri 120 schiavi che saranno venduti in Sicilia perché quel viceré ha bisogno di galeotti per le sue navi. I cristiani liberati dalle catene in questa circostanza sono 16. 2 i pezzi di artiglieria acquisiti nell’azione. La squadra si allontana subito da Algeri con al traino le due recenti prede nelle quali vi sono fatti salire alcuni maestri d’ascia per le riparazioni più urgenti e due equipaggi  in modo che possano raggiungere Livorno. Da parte sua l’Inghirami tenta nuovamente di assalire Djidjelli. Gli abitanti non si fanno trovare impreparati; danneggiano con i loro pezzi d’artiglieria il palamento della capitana. L’ammiraglio decide di allontanarsi dopo avere collocato in linea davanti alla cittadina barbaresca le 6 galee ed avere sottoposto il centro ad un pesante bombardamento. E’ messa la prua verso la Sardegna; alcuni pescatori di corallo gli segnalano la presenza in tali acque di 2 galeotte di Biserta. Si pone alla loro caccia dopo avere diviso, come in altre occasioni, la sua squadra in due sezioni. La padrona e la “San Cosimo” non riescono nel loro obiettivo di raggiungere i fuggitivi della prima galeotta che riescono a fare perdere le loro tracce. Viceversa la capitana insegue con successo l’altra galeotta, la sperona e procede all’arrembaggio. 121 sono i superstiti costretti alla resa; i vogatori cristiani, al solito, sono liberati dalla catena. Presa a rimorchio tale imbarcazione Inghirami fa rotta verso Civitavecchia con la capitana, la “Firenze”, la “San Giovanni” e la “Santa Maria Maddalena”. Nel porto pontificio è raggiunto anche dalla padrona e dalla “San Cosimo”.
Settembre ottobreA Livorno. A metà mese riceve l’ordine dal granduca  Cosimo dei Medici di preparare la squadra per recarsi a Napoli ed a Messina  per vendere su tali mercati i prigionieri catturati nella precedente uscita. Tocca Portoferraio e Civitavecchia; nei pressi di Monte Circeo si imbatte in 5 galee maltesi ed in una della squadra di Sicilia, a bordo della quale si trova il marchese di  Vigliena, che si sta recando in Spagna dopo avere lasciato il suo incarico di viceré di Sicilia. A Napoli sono venduti gran parte dei  prigionieri musulmani. La squadra (ottobre) raggiunge Messina ove viene completata la vendita degli schiavi. Il governatore di Reggio Calabria ed il viceré di Napoli, durante la permanenza in tale porto chiedono il suo aiuto per la presenza sulle coste calabresi di una squadra ottomana di 6 galee. Si mette alla loro caccia; pattuglia il Tirreno meridionale per quasi due settimane, A fine mese rientra a Livorno. L’Inghirami si ritira nella sua villa di Ulignano nei pressi di Volterra.
1611
Aprile ottobreToscanaImpero ottomanoSi prepara per una nuova crociera (aprile). Al momento della partenza il granduca gli concede una commenda comportante una rendita annua di 200 scudi; è anche riconfermato nel suo incarico di ammiraglio. Si ferma inizialmente a Messina per calatafare le carene delle sue galee. Con il miglioramento delle condizioni atmosferiche riprende la navigazione verso l’Egeo. A maggio si trova nei pressi di Cerigo (Kithira); si avvicina a riva e raccoglie a bordo otto carpentieri cristiani fuggiti da un bastimento musulmano. Si volge, come da disposizioni, su Kavala. Il comando della fanteria da sbarco è assunto da Giulio da Montauto. La squadra si avvicina all’improvviso a Porto Bufalo ed attacca (Disto) Dhistos, piccola fortezza situata nell’isola di Negroponte (Evvoia). Alla difesa di essa si trovano solo 60 uomini con 6 pezzi di artiglieria. L’Inghirami sbarca le truppe. La resa dei turchi avviene senza contrasti; sono ridotti in schiavitù 46 uomini; l’artiglieria viene inchiodata  perché la fortezza si trova a cinque miglia dal mare e le strade che conducono al lido sono in pessime condizioni. Due giorni dopo l’Inghirami insegue e cattura un grosso caramussali carico di frumento e  dotato di 8 piccoli cannoni. I marinai cercano di fuggire a terra: sono catturati 32 uomini sui 40 che si trovano a bordo. Sale sull’ imbarcazione un equipaggio toscano che conduce la nave  a Messina. Di seguito ispeziona un caramussali greco ed imprigiona 13 membri dell’equipaggio di origini musulmane. Viene a conoscenza nell’ occasione che nella base di Volos sono ancorate 25 navi ottomane che, in caso di attacco a Kavala, sarebbero pronte a tagliare la ritirata alla squadra stefanesca. Il fatto non cambia i suoi piani. Giunge al’isola di Taso (Thasos). Spedisce in avanscoperta con una feluca un pilota per individuare il posto migliore per sbarcare le truppe ed occupare Kavala. Il pilota fallisce nella sua missione; le 6 galee sono, invece, avvistate dalle sentinelle. I musulmani aprono il fuoco contro i legni dell’ordine di Santo Stefano. All’alba l’Inghirami rinuncia ad ogni operazione anfibia e  ritorna nell’Egeo. Dopo qualche giorno nel tratto di mare che intercorre tra l’isola di Lemno (Limnos) e quella di Samotracia (Samothrake) costringe alla resa una piccola imbarcazione con tredici turchi; la stessa sera l’equipaggio di un altro battello ottomano evita la cattura gettandosi sulla costa. Sono pure avvistate 5 navi lontane una ventina di miglia. Durante la notte diminuisce la distanza che separa le due formazioni. All’alba si scopre che un solo bastimento è greco; gli altri 4 sono tutti ottomani. Questi ultimi cercano di fuggire; cadono preda della squadra che cattura, nel complesso, 65 uomini. Nei giorni seguenti Iacopo Inghirami, nelle vicinanze dell’isola di Bozca, si impadronisce di altre 2 imbarcazioni turche con diciotto uomini a bordo. La sera medesima è intercettato un caramussali che cerca scampo arenandosi sul lido. Si accende un violento combattimento al cui termine vi sono 8 feriti tra i toscani e 13 morti e 3 feriti tra gli avversari. Una grossa formazione ottomana ha lasciato, nel frattempo, Chio per dare la caccia alla squadra stefanesca. L’ammiraglio decide di abbandonare le acque vicine ai Dardanelli e di rientrare in Italia. Durante tale viaggio la padrona si impadronisce all’arrembaggio di un caramussale turco il cui equipaggio preferisce combattere anziché chiedere la resa. I 34 superstiti sono fatti prigionieri. A giugno si porta a Malta; sosta a Siracusa per calatafare le carene delle galee; tocca poi   Messina e Gaeta. A fine mese, dopo un breve periodo di riposo, le 6 galee sono indirizzate verso la Spagna per caricare (luglio) a Cartagena 50 casse d’argento. Ritorna a Livorno; trasporta a Messina l’usuale partita di tessuti. Ad agosto rimane in tale porto per collegarsi con la flotta spagnola ancorata nel porto siciliano. Rientra a Livorno;  da qui riprende il mare, sempre con 6 galee, perché alcuni grossi velieri di Algeri scorrono in quelle acque (settembre). Ad ottobre è segnalato nelle prossimità delle Bocche di Bonifacio. Si impossessa di un brigantino di Algeri di 12 banchi con 29 corsari. Continua ad incrociare per alcune settimane tra la Corsica e l’isola d’Elba. In Toscana a fine mese.
1612
Aprile novembreIn mare con 6 galee su ciascuna delle quali è imbarcata una compagnia di fanti: il comando delle truppe di terra è dato a Pietro Capponi ed a Pietro dei Medici. Tocca l’Elba e Porto Santo Stefano; deve riparare a Porto Vecchio per le cattive condizioni atmosferiche. Come spesso succede giunge a Messina e qui fa calatafare le carene delle sue navi. Imbarcati i rifornimenti necessari per una crociera in Levante punta su Volos. A maggio le vedette toscane scoprono all’orizzonte una formazione ottomana di 11 galee diretta ad Atene. Mentre si trova al riparo di un’isola sono intraviste 2 galeotte che si stanno avvicinando alla cala in cui ha posto i suoi ormeggi. L’Inghirami decide di attaccarle. In realtà le 2 navi sono l’avanguardia di una formazione complessiva di 13 galee. Si allontana. Nel tardo pomeriggio quando pensa di essersi allontanato sufficientemente dal pericolo compaiono a prua 7 imbarcazioni che sembrano venirgli contro. Teme di essere preso tra due fuochi; si accinge a combattere. Poiché la “San Giovanni” e la “Santa Margherita” hanno problemi di manovrabilità l’Inghirami le fa prendere a rimorchio da capitana e da “Santa Margherita”. I 7 bastimenti ottomani che sembrano voler sbarrare la strada non sono navi da guerra, bensì comuni mercantili: decide allora di proseguire per la sua strada. Obiettivo della prossima operazione non è più Volos; stabilisce di  dirigersi verso Candia, a Capo Salimene, ove procede alla manutenzione delle galee della squadra.   Il punto di approdo in cui far sbarcare la fanteria è identificato nel golfo di Istankios a nord della Cnidia. Viene conquistato il villaggio di Chieuren (o Kermen o Chieremen) di fronte all’isola di Coo (Kos) in Anatolia; la fortezza cede senza colpo ferire. Di seguito sono depredati i dintorni; il reimbarco avviene con un grande bottino e 130 schiavi (un solo ferito tra i toscani). Si trasferisce, successivamente, nelle acque del braccio di Maina. L’ultimo giorno del mese sono avvistati 6 velieri, 2 greci e 4 turchi (2 caramussali e 2 saiche). I marinai delle imbarcazioni ottomane cercano scampo fuggendo a terra. Costoro sono inseguiti dai fanti imbarcati sulle galee e dalla popolazione locale che ne uccide una ventina per alcune fonti, un centinaio per altre. 75 sono i prigionieri, 16 i pezzi di artiglieria prelevati. Di converso tra morti e feriti le perdite della squadra stefanesca sono valutate in una sessantina di uomini. Dei 4 legni catturati (tutti trasportano frumento) uno è abbandonato in mare mentre gli altri 3 sono dotati di equipaggio con i quali proseguire il viaggio. Le 6 galee ed i 3 velieri giungono a giugno a Messina. Solo a metà mese, a causa delle cattive condizioni atmosferiche, Iacopo Inghirami può riprendere la navigazione e raggiungere Livorno a metà mese. Deve subito ripartire per una nuova missione in Spagna: la navigazione ora si presenta difficile ed è contrassegnata da numerosi scali lungo le coste liguri e provenzali. A metà luglio  la squadra è segnalata a Cartagena dove è previsto la presa a bordo di numerose casse d’argento. Non resta inattivo nelle acque spagnole; intercetta un natante appartenente ad un rinnegato. I marinai sono messi alla catena ed il carico (670 barili di tonno) è imbarcato sulle galee assieme con 2 pezzi di artiglieria. Il bastimento è preso a rimorchio per essere venduto nel primo porto spagnolo in cui fare sosta. In soli quattro giorni è coperta dalle galee la distanza che separa Barcellona da Livorno. Iacopo Inghirami deve ripartire ancora una volta per trasportare merci alla fiera di Messina. Lascia a Livorno la vecchia “San Giovanni” per utilizzare al suo posto una galea di nuova impostazione, la “San Carlo” progettata dall’inglese Robert Dudley. Ad agosto la formazione tocca  Napoli e Messina; ad ottobre salpa, sempre con 6 galee, per fare rotta su Portoferraio. Controllate le coste dell’Elba, di Pianosa e della Corsica orientale la squadra  si spinge nelle Bocche di Bonifacio dove fa suo un brigantino barbaresco di 13 banchi. Sono catturati 34 uomini con il loro rais: quest’ultimo è già stato fatto prigioniero quattro volte da corsari cristiani. I musulmani riferiscono della presenza in zona di una formazione corsara di 14 legni partiti da Tunisi e da Biserta. L’Inghirami continua nella sua azione di pattugliamento dei litorali delle due isole. Nella zona di Capo Coda Cavallo, a sud di Olbia, sono fatti prigionieri 9 musulmani facenti parte di un brigantino di 13 banchi assalito dai sardi che hanno fatto strage dell’equipaggio. E’ ripresa la navigazione. Agli inizi di novembre, quando le scorte di vettovaglie si vanno esaurendo, la squadra è sorpresa dal mare in tempesta nei pressi Pianosa. Verso l’isola d’Elba le galee si disperdono perdendo le tracce della “Santa Margherita” e della “San Carlo” che hanno al traino il brigantino predato. Le galee ritenute perdute potranno raggiungere il porto di Livorno dopo avere perso il brigantino preso a rimorchio affondato con sedici membri dell’equipaggio.
1613
Marzo aprileA fine marzo salpa da Livorno con 6 galee: la capitana, la padrona, la “Santa Maria Maddalena” la “San Giovanni” (al posto della discussa “San Carlo” che sarà presto messa in disarmo), e da due nuove unità quali la “San Francesco” e la “Santo Stefano”. Il corpo di spedizione imbarcato a bordo per questa nuova spedizione in Levante è comandato da Giulio da Montauto. A Civitavecchia la squadra stefanesca imbarca il figlio primogenito del duca di Epernon, Henri de Nogaret d’Epernon, conte di Candale e duca di Halluyn, con 50 gentiluomini francesi che seguono quest’ultimo come venturieri.  Durante la navigazione (aprile) si rompe l’albero di maestro della “Santa Maria Maddalena”. L’Inghirami si deve trattenere nel porto di Messina per riparare  tale avaria; nell’arsenale sono, come sempre, calatafate le carene delle varie galee. A Reggio Calabria è imbarcata una partita di carne salata. Al largo delle coste calabresi si spezza alla “San Giovanni” il cavo dell’antenna del trinchetto: la riparazione è effettuata durante la navigazione. A metà aprile si trova nei pressi di Modone: sempre alla “San Giovanni” si spezza l’albero di maestro. Viene fatto fronte a questa avaria.  Si imbatte presso Rodi in 4 galee di corsari privati che appartengono all’ordine gerosolomitano. Con costoro tenta di mettere a sacco una piccola località nell’ Asia Minore di fronte a Samo (Samos). Trovatala ben munita di difensori i corsari toscani si allontanano separandosi dai cavalieri di Malta. Decide allora di colpire un villaggio dell’isola di Lero (Leros): a fine mese Giulio da Montauto, alla testa di 600 fanti, inizia la marcia di avvicinamento al borgo. All’alba i toscani hanno la sorpresa di trovarlo completamente vuoto perché fatto evacuare dalle autorità ottomane a dausa delle continue incursioni subite da parte di pirati musulmani e di corsari cristiani. Si impadronisce di un’imbarcazione che trasporta legname (dodici prigionieri); si ancora alla vicina isola di Farmakonisi. Le sue vedette dalle alture avvistano il prossimo arrivo all’isola di 10 galee ottomane. L’Inghirami fa subito rotta su Porto Santo Stefano e l’isola di Niccaria dove può provvedere al rifornimento di acqua dolce. Si ripara presso la costa di Stampalia (Astypalaia) che lascia a fine mese.
Maggio settembreCosteggia l’Anatolia ; a metà mese incrocia nel golfo di Antalya. Assale in Caramania la fortezza di Eliman (Acliman, l’antica Seleucia di Pisidia) perché è venuto a conoscenza dai marinai di un legno mercantile predato che nella località si trova un’ingente quantità d’oro, circa 200000 scudi,  qui trasportati  da poco da Cipro quale tributo dell’isola al governo ottomano. Inoltre, sempre ad Acliman, due anni prima, sono stati trucidati dai turchi 40 marinai toscani della nave “Prospera” arenatasi per un errore del comandante su quella spiaggia: le loro teste sono ancora appese alle porte cittadine. Alla difesa della città vi sono 400/450 uomini. Sbarcano nottetempo le truppe di terra agli ordini di Giulio da Montauto. Le sentinelle si accorgono del loro avvicinarsi. Sono appoggiate le scale alle mura; è fatta saltare la porta; vi è un’irruzione all’interno; 150 turchi riparano in un fortilizio ed attendono i soccorsi. La cavalleria nemica è posta in fuga. Viene ora attaccato il castello; Iacopo Inghirami lo batte con forza dal mare. Con la resa dei difensori vengono catturate una galea ed una galeotta della guardia di Cipro ancorate nel porto ed 8 navi mercantili. Dopo quattro ore di combattimento sono ridotti in schiavitù 313 musulmani (800 per altre fonti) e sono liberati 237 (300) cristiani, la maggior parte vogatori. Ai cristiani liberati l’Inghirami chiede di remare ancora a bordo delle 2 navi turche catturate. I caduti ottomani sono stimati in 150; Giulio da Montauto denuncia la perdita di 19 uomini e di 55 feriti. La fortezza è data alle fiamme: le 8 navi che ora compongono la squadra stefanesca si dirigono a Porto Cavaliere dove sono sepolti i caduti e le 40 teste dei marinai della “Prospera”. Giorni dopo l’Inghirami si imbatte in un veliero il cui equipaggio (45 musulmani e 3 greci) invece di arrendersi preferisce combattere. La nave cola a picco; solo 34 musulmani ed i 3 greci, quasi tutti feriti, sono recuperati in mare dai legni toscani. I cavalieri subiscono nell’ occasione la perdita di 13 morti e di parecchi feriti. Ore dopo è catturata un’imbarcazione turca i cui marinai riescono a fuggire a terra. Il natante è demolito ed abbandonato in mare. Agli inizi di giugno la squadra naviga davanti a Modone. Il capitano di un veliero fiammingo informa i toscani che al largo delle coste calabresi stanno incrociando 3 galeotte barbaresche. La caccia a queste navi da parte della squadra stefanesca si rivela infruttuosa. L’Inghirami fa tappa a Reggio Calabria ed a Messina. A metà mese salpa da tale porto per dirigersi a Napoli ed a Civitavecchia dove sbarca il conte di Candale. A Livorno. Segue a fine luglio il consueto trasporto panni a Messina. A fine agosto si trova a Livorno ed ai primi di settembre inizia la caccia ad alcuni legni barbareschi segnalati lungo le coste della Toscana.
1614
Marzo giugnoEsce con 6 galee da Livorno mentre il Beauregard salpa con i galeoni. 4 galee agli ordini di Paolo Orsini scortano a Sidone (Sayda) l’emiro druso Fakr-ed-Din, già ribellatosi in Siria ai turchi. Rientra a Livorno dove cura l’allestimento delle galee stefaniane in previsionedi una prossima crociera da intraprendere. A maggio viene riconfermato nel suo titolo di ammiraglio. A fine mese salpa da Livorno per dare la caccia ad alcuni legni barbareschi scoperti nei pressi della Corsica. Il forte vento spezza alla “Santo Stefano” l’albero di maestro per cui l’Inghirami decide di rientrare alla base di partenza per una sua sostituzione. Ritorna in mare; naviga nei pressi dell’isola di Gorgona; punta sulla Corsica. E’ informato che 4 galeotte di Biserta hanno di recente catturato alcune navi francesi vicino alle Bocche di Bonifacio: deve abbandonare presto la loro ricerca perché richiamato dal granduca di Toscana. Nei primi giorni di giugno nei pressi di Cipro intercetta una galeotta di Biserta di 18 banchi. L’equipaggio cerca di raggiungere la terraferma; sono catturati 88 barbareschi. Rientra a Livorno con al traino la galeotta conquistata. Salpa a giugno con 6 galee; punta verso la Corsica; nei pressi di Porto Vecchio avvista 2 brigantini di Biserta di 7 e di 8 banchi rispettivamente: questi, alla comparsa della sua squadra, si buttano sulla costa. I toscani non riescono a rintracciare nessuno a causa della fitta vegetazione che caratterizza la zona. Sono, viceversa, liberati cinque cristiani presi prigionieri dai corsari quella stessa mattina. La successiva perlustrazione delle acque dà parimenti esito negativo. Si dirige ora verso la costa africana.
Luglio ottobreSi ancora nelle vicinanze di Biserta per rifornirsi di acqua potabile. Un drappello di fanti scende a terra per le necessarie operazioni di prelievo: costoro sono attaccati da un contingente di cavalleria che costringe i toscani a ripiegare in disordine sulla spiaggia. Iacopo Inghirami fa aprire il fuoco di copertura sugli attaccanti; invia 2 caicchi ed una feluca a recuperare i superstiti. 2 sono i suoi soldati caduti sul terreno ed 11 i salvati. Le salme dei due caduti sono recuperate per dare loro cristiana sepoltura. Due giorni dopo intercetta un caramussali ottomano la cui presenza gli è stata fornita dai capitani di alcuni velieri francesi. Quasi tutti i membri dell’equipaggio della nave musulmana riescono a fuggire su una lancia nelle secche di Cherchenna (Kerkennah). Il veliero conquistato, oltre ad essere armato con 3 cannoni, sta trasportando nelle stive 5 grossi pezzi di artiglieria imbarcati a Costantinopoli per essere consegnati alla guarnigione di La Goletta. L’Inghirami fa prendere la nave a rimorchio dalla “Santa Maria Maddalena” e si dirige verso Pantelleria. Una tempesta disperde la sua squadra; lascia allora Pantelleria e si porta a Lampedusa con il veliero al traino. Da qui raggiunge Malta ove spera di trovare le altre 5 galee.  Porge i suoi omaggi al gran maestro dell’ordine gerosolomitano; si rifornisce di vettovaglie; lascia a La Valletta il caramussali con il suo prezioso carico e punta verso la Sicilia per ricongiungersi,  con le altre 5 galee ancorate all’isola di Favignana. Prosegue verso nord; sosta a Bonifacio dove ha lasciato i 2 brigantini catturati a metà giugno. Decide di donarne uno al locale convento di San Francesco mentre l’altro è rimorchiato a Livorno. Lascia la città labronica a fine mese dopo avere fatto calafatare le carene delle sue galee; salpa con 6 galee ed un natante carico di vettovaglie per raggiungere a Messina la flotta spagnola. Imbarca a Civitavecchia Carlo Orsini ed altri gentiluomini del seguito di quest’ultimo; si ferma a Nisida per dar modo a 2 sue galee di recarsi a Napoli per scaricarvi una partita di panni. Ad agosto giunge a Messina. Nel porto vi sono solo le galee del viceré di Sicilia, il duca di Ossuna. L’Inghirami raggiunge allora Malta per recuperarvi il caramussali carico di pezzi di artiglierie lasciatovi il mese precedente. Al suo rientro a Messina oltre alla squadra di Sicilia vi sono  le galee di Malta e 4 pontificie. Giunge anche il comandante della flotta spagnola Emanuele Filiberto di Savoia che ancora la galea reale fuori del porto. Altri numerosi legni genovesi, napoletani e spagnoli seguono lo stesso esempio. L’Inghirami si incontra con il principe di Savoia e con il marchese di Santa Cruz. L’armata (66 navi) è divisa in sei gruppi secondo un codice di diritti di precedenza ben preciso che nulla ha a che fare con il numero di navi fornite o la loro efficienza in mare. Il primo gruppo comprende la galea reale, le galee di Malta, quelle pontificie e la padrona di Napoli. Il secondo è composto da 6 galee della squadra di Napoli e da 5 di quella di Sicilia. Il terzo dalla padrona reale e da 10 galee napoletane. Il quarto da alcune navi aggregate alla galea reale, 5 legni siciliani ed uno napoletano. Il sesto ed ultimo comprende la capitana di Carlo Doria insieme con altre 4 galee della sua squadra e la formazione dei cavalieri di Santo Stefano. 2 galee sono inviate in avanscoperta in Levante; al ritorno della missione riferiscono che un’imponente flotta ottomana è ancorata a Navarino. Il principe di Savoia (settembre) fa uscire dal porto 24 navi agli ordini del marchese di Santa Cruz. L’Inghirami è inserito all’avanguardia: naviga un miglio davanti al resto della flotta. Ad ottobre rientra a Livorno con le 6 galee. Si ritira a Volterra dove trascorre i mesi invernali.
1615
Marzo giugnoToscanaCorsari barbareschiHa l’ordine dal granduca Cosimo dei Medici di rafforzare la squadra stefanesca: oltre alle 6 galee usuali deve allestirne altre 2. A tal fine rimette in efficienza la “Santa Giovanna” e riconverte la galea conquistata agli ottomani nel maggio 1613 nel  corso dell’azione ai danni della fortezza di Eliman. La nave è ribattezzata “Annunziata”. Invia in Spagna la padrona e la “San Francesco” al comando di Ottavio da Montauto. Al loro ritorno, a metà maggio, salpa da Livorno con  8 galee per trasportare a Vado Ligure un grosso contingente di truppe  toscane che il granduca è costretto ad inviare in Lombardia in soccorso degli spagnoli. A fine mese progetta una crociera da effettuarsi lungo le coste dell’Africa settentrionale. A giugno parte con 6 galee; nei pressi dell’isola di Montecristo raccoglie  3 naufraghi barbareschi, già facenti parte dell’equipaggio di un brigantino di Biserta. Pattuglia le coste della Corsica e della Sardegna; si dirige verso la Sicilia e Malta. Si collega con i cavalieri dell’ordine gerosolomitano. A fine giugno è segnalato in navigazione tra l’isola di Zembrah e Capo Bon: le sue vedette scorgono una galeotta di Tripoli di 18 banchi che, alla vista della squadra stefanesca, si getta sulla costa. Sono fatti quattordici prigionieri attardatisi a bordo. Recupera la nave con il suo carico, la fornisce di un proprio equipaggio e la aggiunge al resto della sua squadra. Nei giorni seguenti sono catturati un paio di navi mercantili: diciannove marinai sono fatti prigionieri. L’Inghirami, constatata l’inutilità ai suoi fini delle 2 imbarcazioni,  le abbandona in mare.
Luglio ottobreNei pressi di Tabarca, sul litorale spagnolo, si imbatte in un’altra galeotta di 18 banchi. I barbareschi cercano di raggiungere la terraferma. L’Inghirami taglia loro la strada prima che siano in grado di toccare la riva. 77 musulmani sono fatti prigionieri.; sono pure caricati sulle sue galee 2 pezzi di artiglieria di cui è dotata la galeotta. La nave è lasciata andare alla deriva per le cattive condizioni dello scafo. Sosta a La Galite per rifornirsi d’acqua: la locale sorgente è completamente asciutta. Punta la prua verso la Sardegna e si rifornisce d’acqua ad una sorgente vicino a Capo di Pula. Controlla i litorali sardo e corso. A Livorno.  A fine mese parte per Messina; a bordo della “Santo Stefano” viene ospitato Fakr-el-Din. Scaricati i panni caricati per conto di alcuni mercanti fiorentini, ad agosto prosegue per Palermo per affidare lo sceicco druso al viceré di Sicilia, il duca di Ossuna. A Capo d’Orlando si incontra con la squadra di Sicilia del duca di Ossuna, diretto a Messina con alcune galee della squadra di Napoli e di 6 genovesi. L’Inghirami ritorna a Messina dove si mette a disposizione del comandante della flotta spagnola Pedro de Leyva. Segue quest’ultimo in una spedizione in Levante: la formazione è composta da 9 galee siciliane, da 5 maltesi e dalle 6 toscane. Le galee napoletane restano invece a controllare i litorali della Campania e della Calabria. A metà settembre Pedro de Leyva è informato che la flotta ottomana è ferma in Eubea con grossi problemi legati alla presenza della peste a bordo delle navi. Nel corso della crociera la padrona di Malta e la toscana “Santa Maria Maddalena” si impadroniscono di una nave con equipaggio musulmano e greco. L’armata spagnola si aggira nei dintorni di Capo Matapan: sono qui sbarcati alcuni greci che hanno il compito di fomentare una rivolta ai danni degli ottomani. Gli abitanti della regione non hanno alcuna intenzione di seguire tale sollecitazione. A fine mese Pedro de Leyva avvista a dieci miglia di distanza una galea turca; ordina alla squadra stefanesca di darle la caccia. L’Inghirami si muove con la capitana, la “Santa Maria Maddalena e e la “San Cosimo” mentre la padrona, la “San Francesco” e la “Santo Stefano” rimangono all’avanguardia della flotta spagnola. La galeotta è catturata. Durante l’inseguimento l’ammiraglio toscano si avvede della presenza di un’altra galeotta, pure essa appartenente alla squadra di Hassan Mariolo. Il rais cerca scampo buttandosi sulla costa, riuscendo in tal modo a sfuggire alla cattura con tutti i suoi uomini. Gli unici prigionieri sono 21 forzati musulmani incatenati ai banchi; sono liberati dal remo 150 vogatori cristiani. La seconda nave è in buone condizioni, ha a bordo un grosso carico di gallette e di legname. Pedro de Leyva la fornisce di equipaggio e la spedisce a Messina. Ad ottobre esce nuovamente dal porto la flotta cristiana. Sono avvistati 6 velieri turchi, tutti preda delle forze cristiane: in particolare  i maltesi si impossessano di un bastimento nel quale  a bordo sono rimasti solamente 7 musulmani;  i cavalieri di Santo Stefano si impadroniscono invece di un caramussali armato con 4 pezzi di artiglieria. Anche le altre 4 navi sono conquistate con soli 36 prigionieri: tutti gli altri membri dei vari equipaggi  sono in grado di sfuggire alla cattura. Il relativo successo  costa alla formazione spagnola il danneggiamento della capitana di Sicilia andata a finire su uno scoglio mentre sta inseguendo un veliero. Si verificano altre piccole azioni come la conquista da parte di 2 galee stefanesche di un altro caramussali con 33 ottomani. Venti turchi salgono su una lancia per raggiungere la riva. Sono fatti prigionieri da una galea maltese. Trascorrono poche ore e la squadra toscana scopre un terzo caramussali con a bordo 80 uomini. L’Inghirami si mette rapidamente all’ inseguimento di tale naviglio; apre il fuoco ai danni del mercantile. I musulmani si arrendono a seguito dell’abbordaggio. Alcuni marinai si gettano in mare. Alla loro caccia è calata una scialuppa dalla capitana; in essa salgono troppi uomini che con un movimento imprevisto provocano il rovesciamento della barca con la morte di sette soldati e di un marinaio. Nel complesso sono catturati 40 musulmani mentre una ventina periscono nello scontro. I prigionieri sono divisi da Pedro de Leyva tra le tre squadre ai suoi ordini. I 3 caramussali ed alcune galee sono prese a rimorchio per essere condotte a Messina. Nel passare nelle vicinanze di Capo Matapan sono sbarcati dalla flotta alcuni greci che (in questo caso) riescono a sollevare la popolazione locale ai danni degli ottomani. Pedro de Leyva si propone pure di appoggiare con il fuoco della flotta l’azione a terra dei ribelli. La rivolta non ha successo ed il capitano spagnolo riprende la navigazione per la Sicilia.  La crociera, durata cinque settimane, ha portato come risultato alla cattura di una capitana (quella di Hassan Mariolo), di 3 caramussali, di 6 legni minori e di 121 prigionieri. Pedro de Leyva, come diritto del capitano generale, assegna la capitana barbaresca alla Spagna: ciò provoca le proteste   dell’Inghirami cui viene riconosciuto come bottino di guerra un caramussale e 54 schiavi. La squadra stefanesca può ora lasciare Messina per Livorno. Le galee sono stivate di balle di seta per un valore di 50000 scudi. Con l’arrivo in Toscana l’Inghirami può ritirarsi a Volterra dove segue gli ultimi lavori di ristrutturazione del palazzo di famiglia.
1616
Marzo novembreToscanaImpero ottomanoMarzo, come in altre occasioni, rappresenta il mese dell’approntamento della squadra destinata a compiere una lunga crociera nell’Egeo. Salpa con 6 galee; tocca l’isola d’Elba, Civitavecchia (aprile) e Messina dove provvede a fare calatafare le galee della sua squadra ed a caricare le vettovaglie necessarie. Controlla le acque della Calabria senza avvistare nessun bastimento ottomano. A fine mese naviga nelle acque di Cerigo; penetra nel canale di Negroponte; nei pressi di Castelrosso (Megisti) si scontra con la squadra della guardia di Rodi, 6 galee, che, comandata da Amurat Rais, si sta dirigendo da Costantinopoli ad Algeri con a bordo il nuovo dey. Lo scontro è violentissimo ed agli inizi sembra favorevole agli ottomani. La padrona dell’ordine di Santo Stefano, comandata da Giulio da Montauto, viene obbligata a fermarsi a causa di una grave falla allo scafo prodotta dal preciso tiro di artiglieria del nemico. Dopo un’ora di lotta, che comporta gravi perdite per entrambi i contendenti, Giulio da Montauto riesce a riprendere la navigazione ed investe con il  rostro della sua nave la padrona avversaria, condotta da Mustafa Rais, figlio di Mami Rais, un rinnegato portoghese. E’ pure conquistata la capitana mentre le altre 4 galee si danno alla fuga. Sono nel complesso uccisi 150 turchi, compresi Amurat Rais ed il nuovo dey di Algeri. Il bottino, senza contare il valore delle navi, è stimato in 200000 scudi; sono ridotti in schiavitù 216 prigionieri e vengono liberati dal remo 418 cristiani. Tra i toscani si contano 30/36 morti e 280/314 feriti.
Giugno novembreCosimo dei Medici premia l’Inghirami per i recenti successi conseguiti: è nominato marchese di Montegiovi e priore di Borgo San Sepolcro (Sansepolcro). La capitana barbaresca conquistata in precedenza (25 banchi e 3 pezzi di artiglieria) è accorpata alla squadra stefanesca: è ribattezzata “San Carlo”. A metà mese è segnalata la presenza nel Tirreno settentrionale di una formazione barbaresca (7 galee di Biserta). Da Livorno salpano 7 galee (compresa la nuova “San Carlo”) per dare loro la caccia. La squadra stefanesca fa rotta verso l’isola d’Elba e la Corsica. A Bonifacio l’Inghirami è informato che le galee bisertine si trovano al momento nelle Bocche di San Bonifacio. L’ammiraglio incrocia, da parte sua, nelle acque a nord della Sardegna; controlla le numerose cale che caratterizzano l’isola di Asinara; scopre 2 brigantini corsari di 13 e 14 banchi. Tali imbarcazioni sono catturate dalla capitana e dalla “San Francesco”. Le condizioni meteorologiche peggiorano ed obbligano le galee toscane a rifugiarsi prima  all’Isola Rossa e poi a Bonifacio. Lasciati in tale porto i 2 brigantini riparte per la Sardegna. Continua sempre la caccia alla formazione bisertina. A Marettimo, nelle isole Egadi, è informato del recente avvistamento di tale squadra e della  cattura, da parte di quest’ultima, di una nave di Trapani nonché di un  assalto barbaresco (respinto) ad un grosso veliero cristiano. Anche l’Inghirami si porta sulla costa africana. A luglio incrocia davanti a Sfax; sosta a Lampedusa per rifornirsi d’acqua dolce; nei pressi di Capo Bon si imbatte in 3 piccoli natanti i cui marinai per non farsi catturare fanno arenare sulla costa. I musulmani si salvano a terra. Di tali imbarcazioni, tutte rimaste danneggiate nell’impatto con la riva, due hanno le stive vuote mentre nella terza si trova un carico di sale. Caricata la derrata su una galea la squadra riprende il mare continuando a battere la costa tunisina. Sono avvistati 2 bastimenti che viaggiano di conserva.  6 galee puntano contro il veliero più imponente mentre la “San Cosimo” si pone all’inseguimento di quello più piccolo. L’equipaggio di tale nave si dirige verso alcune secche. Il comandante della “San Cosimo”, Alfonso Sozzifanti, per non rischiare di arenarsi con la sua galea è costretto a sospendere l’inseguimento. L’Inghirami raggiunge il primo veliero salpato due giorni prima da La Goletta; scopre che sta trasportando in Toscana alcune mercanzie. A metà mese l’ammiraglio dei cavalieri di Santo Stefano si trova nelle vicinanze di Tunisi a Porto Farina: intercetta un piccolo veliero armato con 2 pezzi di artiglieria avente a bordo 11 marinai. Costoro tentano la fuga navigando in mezzo alle secche. L’Inghirami fa calare le lance e con queste è raggiunto il bastimento. I musulmani aprono il fuoco con i loro cannoni e gli archibugi. Il veliero è conquistato all’abbordaggio: sono catturati 8 superstiti di cui la metà ha bisogno di cure mediche. La nave è abbandonata in mare a causa delle sue cattive condizioni. La squadra si presenta davanti a Biserta nel cui porto hanno trovato rifugio le 7 galee tunisine oggetto della  caccia da parte della squadra stefanesca. L’Inghirami incrocia davanti alla città. Nessun legno barbaresco esce dal porto. All’ammiraglio non resta che fare rotta a settentrione. A Bonifacio per recuperare i 2 brigantini; giunge a Livorno. A fine mese riparte per Messina per la solita missione mercantile. La nuova crociera dura tre mesi e terminerà solo a metà novembre. A Volterra.
1617
Marzo settembreToscanaImpero ottomanoA marzo si reca a Pisa per assistere al varo delle galee “Santa Crisitina” e della nuova “Santa Maria Maddalena”. Riceve l’ordine (aprile) di collegarsi con la flotta spagnola ferma a Messina. Salpa da Livorno con 6 galee. A maggio compie il  solito giro esplorativo inerente il controllo delle coste dell’isola d’Elba, di Pianosa, della Corsica e della Sardegna. Viene a conoscenza del fatto che da Biserta sono uscite 6 galee corsare. L’Inghirami decide di assalire Auria, un piccolo villaggio poco distante da Capo Bon. Rinuncia ad ogni operazione anfibia allorché sulla spiaggia compaiono numerosi musulmani armati. Vicino a Monastir si imbatte in 3 piccole imbarcazioni. I marinai scelgono di buttarsi sulla costa. Nelle stive delle navi predate è trovata una grande quantità di vasellame. Il carico è trasferito sulle galee. Poche ore dopo compare all’orizzonte un veliero con 12 pezzi di artiglieria. La nave si incaglia a ridosso della costa. L’equipaggio non si dà alla fuga; apre il fuoco sugli avversari. I musulmani devono, alfine, cedere. Parte delle merci presenti nella stiva del veliero può essere trasferita alla galee solo ricorrendo alle scialuppe. La nave non ha subito gravi danni per cui dopo essere stata disincagliata ed avere ricevuto alcune riparazioni sommarie viene presa al traino dalle galee. L’Inghirami fa rotta per la Sicilia; soste tecniche a Pantelleria, all’isola di Favignana, in Sardegna ed in Corsica. Si dirige a Portoferraio. Viene a conoscenza che 5 galee di Biserta stanno compiendo un’incursione nelle vicinanze di Capo Corso. Lascia a Portoferraio il veliero ed intercetta i legni bisertini nelle acque di Pianosa. L’ammiraglio si getta immediatamente addosso ai corsari barbareschi; questi si danno alla fuga verso meridione. Così facendo tali navi offrono il fianco ai cannoni prodieri delle galee toscane; le navi barbaresche subiscono gravi danni. L’inseguimento dura sino al tramonto. Il mare che comincia ad agitarsi e l’oscurità permettono ai corsari di dileguarsi. A Messina; da qui entra nel basso Tirreno sospingendosi anche a controllare le coste occidentali e meridionali della Sicilia. Ai primi di luglio è richiamato a Livorno. A fine mese lascia il porto labronico con 6 galee. Ad agosto si collega a Messina con la flotta spagnola di Pedro de Leyva: 16 galee napoletane, 7 genovesi e 7 siciliane. Devono giungere solamente le maltesi. L’Inghirami scarica una nuova partita di tessuti. Salpa per mettersi alla ricerca di 2 galeotte avvistate a Capo Spartivento. Rientra dopo una settimana a Messina. Imbarca una partita di sete e si dirige verso la Toscana. A settembre si prepara per una nuova crociera nell’Egeo. E’ in questa occasione che verrà sperimentato una sorta di cannocchiale telescopico, chiamato calatone, inventato da Galileo Galilei.
Ottobre novembreIn Levante dove compie varie razzie. A metà mese nei pressi di Corone (Koroni) si impossessa di un grosso caramussali turco che, salpato da un porto del Mar Nero, sta trasportando a Tunisi alberi, antenne, remi e legname vario necessario per la costruzione di vascelli da corsa. La nave è conquistata all’arrembaggio. 22 musulmani sono fatti prigionieri e tredici cristiani riacquistano la libertà. L’Inghirami fornisce il veliero di un proprio equipaggio e si dirige verso la Sicilia. Da qui, dato il valore del carico predato, decide di rientrare subito in Toscana. Sulla rotta del ritorno, ai primi di novembre, nei pressi dell’isola di Montecristo la squadra stefanesca è sorpresa da una tempesta. Si rompe il canapo di rimorchio del caramussali ed il vascello va alla deriva verso la Corsica incagliandosi nei pressi di Bastia. Iacopo Inghirami da Livorno invia 4 galee in Corsica per recuperare il veliero. Salpano a tal fine, agli ordini di Alfonso Sozzifanti la “San Francesco”, la “Santa Maria Maddalena” (guidata da Giovan Paolo del Monte) e la “Santo Stefano” sulla quale è imbarcato il nipote Tommaso Fedra Inghirami. Il relitto viene scoperto da 2 velieri tunisini. Interviene il Sozzifonti che attacca i corsari barbareschi e si impadronisce delle 2 imbarcazioni. Il caramussali è lasciato andare alla deriva dopo che il carico è stato tratto in salvo. Alfonso Sozzifanti rientra a Livorno con a rimorchio i 2 velieri tunisini.
1618Dopo trentasei anni di servizio ottiene di essere sostituito nel suo incarico. Viene nominato governatore di Livorno.  Si stabilisce in tale città. Giulio da Montauto ha il comando della squadra stefanesca.
1621
Aprile ottobreToscanaImpero ottomanoCon l’elezione a gran maestro del nuovo arciduca Ferdinando dei Medici è richiamato alla testa della flotta dell’ordine stefaniano. Lascia il porto labronico con 6 galee. Sosta a Portoferraio; da qui prosegue per Messina dove si trova il capitano generale della flotta spagnola Emanuele Filiberto di Savoia. Pattuglia il Mediterraneo, ormeggia a Siracusa dove fa calatafare le carene della sua squadra e riprende a controllare le coste della Sicilia. Agli inizi di luglio avvista 2 galeotte di Biserta. Dopo essere stati a lungo inseguiti i barbareschi riescono a far perdere le loro tracce. La mancanza di vettovaglie lo induce a rientrare a Messina.. Contatta il marchese di Santa Cruz che gli concede di collocarsi all’avanguardia della flotta spagnola. Pochi giorni dopo è richiamato in Toscana per caricarvi una partita di tessuti da consegnare a Messina. Ad ottobre una formazione di 24 galee, tra cui le 6 dell’Inghirami, naviga verso Levante agli ordini di Pedro de Leyva. La flotta effettua una crociera nell’Egeo dove cattura alcuni legni musulmani. L’Inghirami tenta di sorprendere il castello di Aracali: l’impresa non ha successo. Si sposta ad Avuan nel golfo di Antalya; sbarca di notte, si impadronisce di sorpresa della piazzaforte e dei “Sette Cavi”: sono distrutte le opere militari ed è catturato un ingente bottino di guerra. Una forte pioggia provoca l’ingrossamento del vicino fiume Xanto per cui è obbligato a riprendere il mare. Prende il largo ed avvista 2 vascelli turchi. Li tallona; i turchi spiegano prima la bandiera di Genova e poi si danno alla fuga. Si pone al loro inseguimento; gli avversari scaricano le loro artiglierie contro le sue navi. L’Inghirami si allontana dal loro tiro utile e li perseguita con il cannone di corsia. Alfine i vascelli si arrendono; sono presi 50 cannoni, di cui 6 grossi, mercanzie e denaro. Nella stessa campagna pervengono in suo potere altri 40 schiavi ed alcune piccole navi. Ritenta dopo pochi giorni lo sbarco sotto Avuan, mette a sacco il centro facendo 42 schiavi. Sulla strada del ritorno i suoi soldati vengono assaliti dagli avversari: l’ammmiraglio interviene dal mare con i suoi cannoni e li mette in fuga.
SettembreSi unisce con la flotta spagnola a Messina (48 galee). Compie una nuova scorreria nell’ arcipelago. La sua parte di bottino consta in 7 schiavi, in denaro ed in 12 pezzi di artiglieria.
1622Ad aprile con 6 galee salpa da Livorno per Portoferraio. Tocca l’Elba e Civitavecchia. Una tempesta disperde la sua squadra; tutte e 6 le galee riparano a Gaeta. Giunge a Messina a metà mese per collegarsi una volta di più con la flotta spagnola comandata dal principe Emanuele Filiberto di Savoia. Nell’attesa dell’arrivo del resto della flotta conduce la squadra stefanesca nell’Egeo. A Cerigo. Nonostante che sia informato del fatto che nel Peloponneso è scoppiata la peste continua la crociera. Ai primi di maggio avvista 2 piccoli velieri con a bordo 30 musulmani tra marinai e passeggeri. Dà incarico alla padrona ed alla “Santa Cristina” di attaccare i 2 navigli. Questi cedono dopo un breve inseguimento. Non tocca le merci immagazzinate nella stiva perché le navi appartengono alla marineria di Nauplia, città infestata dall’epidemia. Nelle vicinanze dell’Eubea le sua galee intercettano un veliero con un carico di olio, proveniente da Corone (Koroni) e diretto a Costantinopoli. L’equipaggio fugge sulla costa; Iacopo Inghirami  fa disincagliare l’imbarcazione e la prende a rimorchio. Di seguito si impossessa di un altro bastimento con le stive piene di grano. la nave proviene da Napoli di Romania (Navplion): è lasciata andare alla deriva. A metà maggio la “Santo Stefano” ha il compito di catturare un’imbarcazione con 5 turchi. Costoro in un primo momento riescono a sfuggire alla cattura raggiungendo la terraferma. La “Santo Stefano” persevera nel suo inseguimento fino al momento della loro cattura. Due membri su 5  sono rimessi in libertà a causa della loro età. L’Inghirami si volge su Rodi. Seguono alcune piccole catture. Il punto di maggior successo è dato dalla cattura nelle acque della Sardegna di un brigantino di 11 banchi (26 prigionieri).
1623
AprileAd aprile conduce l’ultima crociera. A Messina fa effettuare una manutenzione straordinaria alle sue galee le cui carene sono anche oggetto di calafatura. Il ritardato arrivo della flotta spagnola lo induce a tentare un’ultima incursione in Levante.  Cade ammalato ed è sostituito nel comando da Giovan Paolo del Monte.
1624Ricevuti i conforti religiosi muore a causa della gotta, a Volterra, ai primi di gennaio. E’ sepolto in tale città nella cappella di San Paolo da lui fatta costruire dopo la conquista di Bona. Con il bronzo dei cannoni conquistati dall’Inghirami ai barbareschi il granduca Ferdinando dei Medici fa eseguire dal Tacca la statua ed i quattro schiavi presenti nella darsena di Livorno. Nella chiesa dei cavalieri di Santo Stefano a Pisa si trova un affresco a ricordo del sacco di Bona compiuto dall’Inghirami e dal gran connestabile Silvio Piccolomini. Tale impresa è pure celebrata nel poema “Bona espugnata” di Vincenzo Piazza.

CITAZIONI

-“Uno dei nomi più illustri della storia stefaniana…I suoi successi furono celebrati in canzoni e poemi – dove abbondano immagini retoriche e iperboli -, fra gli altri il poema “Bona espugnata”, redatto quasi un secolo dopo (Firenze, 1694) dall’aristocratico Vincenzo Piazza, e dedicato al granduca Cosimo III: nei versi si elogia l’ammiraglio, ma soprattutto si esaltano la gloria e la potenza della dinastia medicea dominante. ” Bono

-“Come più lungamente di tutti gli altri antepassati hebbe il governo del mare, così hebbe l’opportunità d’illustrare più d’ogn’altro la religione co’ fatti egregi… Stimato a ragione uno de’ maggiori comandanti in mare del suo secolo.” Fontana

-“I servizi resi da lui lo fecero ben presto benemerito e gli accrebbero fama e riputazione, non in Toscana soltanto, ma presso tutte le potenze marinaresche. Sotto di lui la marina da guerra venne rapidamente accrescendosi, poiché, oltre alle quattro galee dell’Ordine ed alle due bastardelle del granduca.. cominciarono ad usarsi le navi a vela, e specialmente i cosi detti bertoni, o vascelli tondi a tre alberi con vele quadre, assai adatti al corso e già usati con molti vantaggi dalle potenze occidentali.” Manfroni

“Il quale dopo avere esercitato la sua gioventù nelle guerre civili di Francia in servizio della Lega, trasferendo nel mare quel valore di cui avea dato tante prove in terra si era reso il terrore dei turchi.” Galluzzi

-“Prode uomo di guerra.” Crollalanza

-“Questi nato alla guerra corredò tosto l’animo proprio di quelle doti, che più atte sono a formare un bravo soldato.” Serie di ritratti d’uomini illustri toscani

-“Con le galee del gran duca di Toscana, delle quali è ammiraglio, in pochissimo tempo ha fatto diverse sorprese di molti luoghi; in particolare della Prevesa, di Castel Rugio, di Bona, di Gigeri et d’altri luochi, oltre che, andando in corso, ha preso con le medesime galee un gran numero di vascelli turcheschi.” Pantera

-“Uno dei più famosi ammiragli dell’Ordine dalla rossa croce…nella flotta stefaniana si venne gradatamente affinando l’organizzazione navale e l’abilità manovriera contro il nemico in mare e la capacità operativa tattica contro località fortificate e contro nidi di pirati a terra. Inoltre, perché le azioni non andassero a vuoto per lo spionaggio degli Ebrei o d’altri, l’Inghirami preparava i piani di guerra nel massimo segreto, dopo essersi procurata, attraverso il concorso di capitani di legni mercantili, la pianta tipografica delle varie località marittime turche o barbaresche da espugnare. Ebbe così inizio una lunga serie di spedizioni offensive che resero ancora più temibile ai secolari nemici la flotta stefaniana e famoso il nome dell’ammiraglio Inghirami.” Panetta

-“Sotto di lui si ebbe anzitutto un progresso tecnico, poiché si registrò un maggior impiego di navi esclusivamente a vela ed in special modo dei bertoni.” Ciano

-“ Ammiraglio delle galee toscane, rese sotto la di lui condotta tanto temute ai turchi ed altre potenze barbaresche, che infestavano i mari Jonio e Mediterraneo.” Amidei

“Sotto la sua guida..l’ordine stefaniano raggiunse il suo punto più alto in termini di efficienza militare.” Lenci

“Un de plus fameux chevaliers (dell’ordine di Santo Stefano)…L’analyse de ses campagnes est intéressante sur la zone d’actiivité et l’intensité de l’action de ces chevaliers.” Barazzutti

“Uno dei più validi ammiragli delle Marine degli Stati preunitari della penisola italiana…Ben preparato professionalmente, coraggioso, sempre incline ad occuparsi delle sue navi anche durante le licenze che trascorreva nella natia Volterra e non disposto ad abbandonare i propri equipaggi in difficoltà, Inghirami si segnala senza alcun dubbio come uno dei più grandi ammiragli non solo della flotta dell’Ordine di Santo Stefano, ma di tutte le Marine almeno mediterranee. E’ da ritenere non appropriato che il suo nome sia stato pressoché obliato e comunque non ricordato nella onomastica navale, in considerazione del fatto che, specialmente in tempi passati, parecchie unità della Marina Militare italiana hanno portato il nome di ammiragli di epoche ancora più lontane di quella attuale.” Gemignani

-“Quel soldato appariva diverso dai suoi commilitoni, perché uomo di lettere oltre che di armi; durante le lunghe navigazioni verso i luoghi da difendere o da offendere, egli affidava alla penna, “per proprio diletto”, non solo il racconto degli eventi bellici e delle azioni di offesa vissuti in prima persona, ma anche e soprattutto la descrizione di coste, fortezze, città portuali viste durante i viaggi. Il tutto era poi arricchito da un gran numero di disegni originali e ancora in gran parte inediti miranti a illustrare eventi e siti.” Scamardi

Fonte immagine: wikipedia

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